(di Patrizia Pedrazzini) Esattamente un anno fa, l’ottantottesima edizione dei Premi Oscar fu segnata dalla polemica (innescata dagli attori Will Smith e Jada Pinkett Smith, nonché dal regista Spike Lee) relativa alla totale mancanza di interpreti di colore nella corsa alla statuetta. Nel frattempo, il tramonto dell’era Obama ha inevitabilmente fatto riemergere la penosa realtà degli “underprivileged”, i disperati e i discriminati della società statunitense, primi fra tutti gli afroamericani. E, comunque sia, una storia fatta di neri, droga, violenza e omosessualità non può che configurarsi come altamente drammatica.
Sullo sfondo di questi tre elementi arriva nei cinema italiani l’attesissimo “Moonlight”, del regista Barry Jenkins (al suo secondo lungometraggio dopo “Medicine for Melancholy”, del 2008), osannato e pluripremiato dalla critica e nei Festival di mezzo mondo (inclusi Telluride, Sundance, Toronto, New York e Roma), con già all’occhiello il Golden Globe 2017 come miglior film drammatico, e in corsa per gli Oscar con ben otto nomination (film, regista, attore non protagonista, attrice non protagonista, sceneggiatura non originale, montaggio, fotografia e colonna sonora).
“Moonlight” è un film il cui primo punto di forza consiste in una semplicità che rasenta il disarmante. Ordinatamente diviso in tre “tempi”, racconta l’infanzia, l’adolescenza e l’età adulta di Chiron, bambino, ragazzo e giovane uomo afroamericano che cresce a Liberty City, difficile sobborgo di case popolari di Miami. Fragile, insicuro, taciturno, costantemente preso di mira dai compagni di classe, che lo etichettano come gay, ha dieci anni quando trova conforto e affetto nella figura di Juan, spacciatore dall’animo buono che gli fa, come può, da padre. Quanto alla madre, ci prova a crescerlo bene, ma è tossicodipendente, e questo la allontanerà sempre più dal figlio. Ha poi sedici anni quando, ragazzo serio e introverso, vive la sua prima esperienza, sentimentale e sessuale, con un coetaneo che gli è amico, Kevin. Lo stesso che tuttavia, per paura di rappresaglie, lo picchierà ferocemente su ordine del bullo della scuola. Di qui la reazione violenta del timido Chiron, che però per questo finirà in riformatorio. Infine è un uomo quando, divenuto a sua volta spacciatore (l’ha imparato in prigione), ma nell’animo ancora intrappolato da paure e incertezze, si riavvicinerà alla madre, che nel frattempo ha deciso di disintossicarsi. Finché un giorno, inaspettata, arriverà una telefonata da Kevin.
E fin qui niente di nuovo, anzi. Centoundici minuti di stereotipi, dalle periferie disastrate al bullismo, dal delinquente dal cuore tenero alle lacrime che accompagnano l’abbraccio finale con la mamma. Mentre una cappa di buonismo sembra avvolgere l’intera storia, all’interno della quale l’unico “cattivo”, il bullo che perseguita Kevin, finisce giustamente preso a sediate in testa. Per il resto – e qui siamo, quasi per assurdo, al secondo punto di forza del film – tutto, e tutti, rientrano nella più totale e assoluta “normalità”. Perché Liberty City non è un ghetto degradato e infernale, ma un quartiere povero dove, sì, c’è chi spaccia per vivere e chi si fa di crack per non morire, ma i ragazzi vanno a scuola, e c’è sempre qualcuno disposto a dare una mano. Dove mondi diversi riescono a fondersi, e a convivere.
Ed ecco allora il terzo punto di forza della pellicola: la discrezione, l’eleganza, il gusto per l’introspezione con i quali Jenkins mette in scena la storia (tratta da un lavoro del drammaturgo di Miami Tarell Alvin McCraney, anch’egli, come il regista, cresciuto a Liberty City). Per cui “Moonlight” non è un film sull’omosessualità, e nemmeno sui neri, o sulla violenza, o sulla droga. Né sul mix di questi quattro “drammatici” elementi. È un film sulla vita, che con rispetto e senza preconcetti va a scavare nell’intimità dell’uomo e del suo mondo: l’identità, la famiglia, l’amicizia, l’amore (ed è davvero curioso come, nel suo voler rifiutare le etichette imposte dall’esterno, riesca a infarcirsi all’interno di altrettanti luoghi comuni).
Così la pellicola di Jenkins è una sorta di storia “universale”, che racconta la violenza come parte della vita, e l’amore come contraltare della violenza. C’è posto per tutto e per tutti, purché ognuno conosca se stesso. Detto questo, “Moonlight” non è un film da otto statuette. Anche se, di Oscar, farà sicuramente incetta. Certo la bella fotografia e la pur accattivante colonna sonora, per quanto incisive, non riescono a compensare la nomination per il miglior attore non protagonista a Mahershala Ali (un buon Juan) e quella per la migliore attrice non protagonista alla pur ottima Naomie Harris (Paula, la madre). Perché, quanto a interpretazione, il migliore di tutti è senza ombra di dubbio il piccolo Alex R. Hibbert, nei panni di Chiron a dieci anni. I suoi silenzi, i suoi timori soffocati in gola, le sue lacrime bloccate sul ciglio degli occhi sono impagabili. “Cos’è faggot?” “È una parola usata per insultare i gay” “Ma io lo sono?” “Sei tu che devi decidere chi sarai. Non permettere mai agli altri di decidere per te”.
“Moonlight”. Dai sobborghi della Miami “nera” la dolorosa crescita di un ragazzo alla scoperta della propria identità
15 Febbraio 2017 by