MILANO, venerdì 1 dicembre ► (di Patrizia Pedrazzini) “L’orrore”, evoca sofferto Marlon Brando, perduto colonnello Kurtz in “Apocalypse Now”. “L’orrore ha un volto, e bisogna essere amici dell’orrore. L’orrore, e il terrore morale, ci sono amici. In caso contrario, allora diventano nemici da temere. Sono i veri nemici”.
James Nachtwey (Syracuse, New York, 1948), fotografo di guerra ed epico testimone del dolore, dell’ingiustizia, della violenza e della morte che alla guerra si accompagnano, proprio delle immagini del Vietnam (e delle concomitanti marce per i diritti civili) si nutrì affacciandosi, fra gli anni Sessanta e Settanta, al fotogiornalismo. Poi vennero l’Irlanda dell’IRA (con lo sciopero della fame e la morte di Bobby Sands) e i reportage sulla Romania e sull’Urss dopo la caduta del Muro, la fame in Somalia e la devastazione del Sudan. Il Ruanda e lo Zaire. La Bosnia e la Cecenia. La povertà dell’India e la miseria dell’Indonesia. La seconda Intifada in Cisgiordania, l‘Iraq e l’Afghanistan. I terremoti in Nepal, Haiti e Giappone, e l’11 settembre. E la moderna diaspora dei migranti. E tanto altro ancora.
Sintesi di tutto questo, c’è ora a Milano a Palazzo Reale, fino al prossimo 4 marzo, la mostra “Memoria”, prima tappa internazionale di un tour destinato ad approdare ai maggiori musei del mondo: 200 immagini, diciassette sezioni, la più grande retrospettiva mai dedicata a Nachtwey e al suo lavoro. Una sorta di danza macabra nella quale luce e tenebre si alternano quasi all’infinito, ma per fotografare la quale l’autore persegue da sempre una strada personalissima e precisa: quella della bellezza e della compiutezza formale. Criteri grazie ai quali i suoi scatti, duri, cattivi, disperati, centrano lo straordinario effetto di liberare, in chi li osserva, la compassione del dolore e della sofferenza, trasformandosi, da livide testimonianze, in vivo strumento di lotta.

Genocidio del Ruanda: Un uomo di etnia Hutu mutilato dalla milizia Interahamwe (1994) – Dalla copertina del catalogo (© James Nachtwey/Contrasto).
Perché esattamente questo trasmettono le due immagini che sono valse al fotografo statunitense il prestigioso World Press Photo of the Year nel 1992 (una donna somala che, piegata su se stessa, solleva il corpo, avvolto in un telo, del figlio morto per la denutrizione) e nel 1994 (il profilo, segnato dai colpi di machete, di un giovane ruandese di etnia hutu sfigurato dai miliziani che lo sospettavano di simpatizzare per i ribelli tutsi). Ma esattamente questo trasmettono anche gli scatti dei malati in fin di vita di aids e di tubercolosi; dei bimbi dagli arti molli paralizzati dall’Agente Arancio, il defoliante altamente tossico a base di diossina irrorato dagli americani fra il 1961 e il ’71 sul Vietnam del Sud; del cecchino croato che, girate le spalle a un letto sfatto, prende la mira infilando la canna del fucile fra le persiane di una camera da letto. E le madri che cullano i figli morti, novelle Pietà senza volto né voce. E le decine e decine di scatti sul lavoro dei medici di guerra, sugli ospedali da campo, sulle lettighe ricoperte di feriti e di sangue, di cadaveri, di arti strappati, di garze, di cannule, di bisturi impotenti davanti a tanto scempio. Non c’è orrore davanti al quale l’obbiettivo di Nachtwey indietreggi. Non c’è orrore che il fotoreporter non accolga, nel proprio doloroso viaggio fra la “perduta gente”.
“Ho voluto diventare un fotografo per essere un fotografo di guerra. Ma ero guidato dalla convinzione che una fotografia che riveli il volto della guerra sia quasi per definizione una fotografia contro la guerra”.
Da non perdere.
“James Nachtwey. Memoria”, Milano, Palazzo Reale, fino al 4 marzo 2018
www.palazzorealemilano.it