Napoli, parole e musica di una incredibile città dalle mille contraddizioni, miserabile e ricca d’immense meraviglie

PeppeeToniServillo_Laparolacanta_fotoMarcoCaselli_3MMILANO, mercoledì 15 aprile  ● 
(di Giorgio Ferrari & Paolo A. Paganini) ♦
LO STRAORDINARIO CALEMBOUR DEL “SOLIS STRING QUARTET” – Camaleonti. Che altro si può dire dei violinisti Vincenzo Di Donna e Luigi De Maio, del violista Gerardo Morrone e del violoncellista Antonio di Francia? Basta scorrere l’elenco quasi sterminato di collaborazioni, di contaminazioni, di imprestiti che dura ormai da un quarto di secolo e che sono l’essenza stessa del Solis String Quartet per capire come questo ensemble di ragazzi incontratisi quasi venticinque anni fa al Conservatorio S.Pietro a Maiella cavalchi con picassiana sfrontatezza l’arte di rubare e di far propria la musica di ogni angolo del mondo in un calembour che mescola il jazz con Béla Bartók, Maruzzella di Renato Carosone con Minuano di Pat Metheny, l’atonale e dadaista Tarantella dal Quartetto d’archi n.4 di Fabio Vacchi con brani originali del gruppo.
Con Peppe Servillo il Solis String Quartet aveva già allestito un sorprendente spettacolo di canzoni napoletane racchiuso nell’album Spassiunatamente. Ma al Piccolo Teatro Strehler si è andati oltre: un’osmosi quasi perfetta fra i fratelli Servillo e la musica, fra la parola e il sortilegio timbrico che questo quartetto di kremeriana perfezione (ma un occhio di riguardo lo hanno certamente concesso anche al più celebrato Kronos Quartet, nei cui confronti appare notevole il debito) riesce ad estrarre da un gesto artistico imperioso ed esatto.
Qualcuno di sicuro avrà storto il naso: come si può mescolare Napoli, la malinconia, Murolo, l’Eduardo di De Pretore Vincenzo, il Viviani di ‘O guappo ‘nnammurato con l’arrembante colorismo ritmico di un quartetto che tutto sa fare e tutto osa (musica klezmer compresa) fino ai confini di uno spaesamento e al rischio di smarrire e far smarrire la bussola?
Il segreto sta proprio qui, nel titolo del recital-concerto dei fratelli Servillo con il Solis String Quartet: La parola canta, appunto, radicalizzazione felice del recitarcantando che qui si fa cantarmusicando con esito trionfale. Talché districare il canto dalla musica, la parola dal suono del quartetto d’archi, l’affabulante racconto dei due fratelli dal crepitante universo sonoro del quartetto diventa impresa futile e vana.
I lunghi applausi al termine di un’ora e mezzo di emozione non fanno che confermarlo.  (Giorgio Ferrari)

UN INNO DEI SERVILLO IN GLORIA DI NAPOLI – Dal ventre di Napoli, ad essere crudamente prevenuti, esce ogni sorta di miasmi e mefitici liquami. Metafora di una visione offuscata, ingiusta. Ma anche questo è un aspetto, l’altro aspetto, di una incredibile città di mille contraddizioni, di una città di carne, sangue, sudore, odori; di una città contaminata, ferita, sfregiata, eppure pregnante di immense meraviglie, di nobili tenerezze, di forti passioni, di languorosi sospiri, di malandrine bassezze e di eroiche generosità.
Tutto questo, tra Santa Lucia, Spaccanapoli, Via Toledo, tra squallidi “bassi” e austeri palazzi ottocenteschi, diventa un concertato di suoni e frastuoni. Ma si colgono anche struggenti melodie, tragiche tammurriate. E rimane nel sottofondo un colorito vociare di popolo, di sguaiate volgarità, d’infuocati vituperi, di scandalose oscenità,di miserabili grandezze. E tutto s’incarna nel linguaggio, in una meravigliosa lingua connotata su un ideale pentagramma, con i più fantasiosi fonemi al posto delle note. È la lingua che diventa musica, in una scambievole reciprocità, quando la stessa musica si fa verbo, parlando al cuore in tutta la gamma dei sentimenti, dalla gioia al dolore, dall’amore all’odio.
Tutto questo è lo spettacolo “La parola canta”, quasi due ore compresi i bis, con più di venti brani, fra testi e canzoni, dei fratelli Servillo: Toni il vate della parola, Peppe il poeta della canzone; Toni il tragico interprete dell’umanità e dell’anima partenopee, Peppe l’ironico giullare delle passioni vesuviane.
Idealmente lo spettacolo, tra passato e presente, dove il passato diventa sangue vivo, in un eterno miracolo di San Gennaro, scorre, più o meno a ritroso, dai giorni nostri (“Napule” di Mimmo Borrelli, 2011) all’Ottocento (“Te voglio bene assaje”, di ignoto, 1839). Tra questi due estremi discende tutta la Napoli del bene e del male, della miseria e nobiltà, da Raffaele Viviani a Eduardo De Filippo, da E. A. Mario a Libero Bovio, da Enzo Moscato a Michele Sovente. Un’orgia di parole in scioglinguagnoli, in giochi di prestigio fonematici, in fuochi d’artificio sonori, di petardi e mortaretti verbali. E, al centro del formidabile quartetto d’archi su un lindo fondale d’azzurri, un generoso e sorprendente Toni Servillo, intenso e ironico, tragico e fine dicitore, nobile e popolaresco: e, dall’altra parte del palcoscenico, Peppe Servillo in controcanto, scavata maschera di teatro in musica, sarcastico e irridente, come in un capolavoro d’un cialtronesco emblema meridionale, “Està. Nun voglio fa’ niente”, di Bovio-Valente, 1913.
Pubblico con esplosioni di entusiasmo da stadio. Lo spettacolo merita un’attenzione ben superiore a queste nostre poche parole. Ma, almeno, dedichiamogli quest’altro riconoscimento. “La parola canta” è un inno d’amore dei Servillo in gloria di una Napoli dai variegati umori multietnici, ora mediterranea, ora levantina, ora borbonica eccetera. Ma questa spettacolare reazione chimica sarebbe stata possibile con una città diversa da Napoli? (Paolo A. Paganini)

“La parola canta”, di/con Peppe e Toni Servillo, e con “Solis String Quartet”. Al Piccolo Teatro Strehler. Largo Greppi 1, Milano. Repliche fino a domenica 19 aprile.