(di Patrizia Pedrazzini) Quando, nella scena conclusiva, lui e lei ballano sulle note di “Finale Ultimo”, il brano del musical “Camelot” che la coppia presidenziale amava ascoltare spesso alla Casa Bianca prima di andare a dormire, la tensione che ha permeato, ininterrottamente per cento drammatici minuti, l’intero film, si scioglie. La tragedia umana si è conclusa. Incomincia il mito.
Chi è stata, realmente, Jacqueline Lee Bouvier, moglie di John Fitzgerald Kennedy, 35° Presidente degli Stati Uniti assassinato a Dallas il 22 novembre 1963? C’è da non crederci, ma della donna la cui immagine fece il giro del mondo, immortalata mentre, sul sedile posteriore della Lincoln Continental lanciata a gran velocità verso il più vicino ospedale, reggeva in grembo la testa scoppiata del marito in un delirio di sangue e terrore, nell’immaginario collettivo contemporaneo non è rimasta, al più, che l’idea di un’icona di stile e di eleganza. Sia chiaro, la moglie di Kennedy di classe ne aveva da vendere. Ma fu anche, e soprattutto, una donna estremamente discreta ed enigmatica, al limite dell’imperscrutabile.
Per questo “Jackie”, del regista cileno Pablo Larraín, è un film da vedere. Perché affronta, con meticolosa lucidità e introspezione quasi maniacale, la sfida di decifrare l’enigma di una donna poco decifrabile. E lo fa andando a scavare nel momento più doloroso e buio della sua esistenza: i quattro giorni che vanno dall’uccisione del marito ai solenni funerali di Stato.
Quattro giorni di disperazione e di lacrime, di ricordi e di paure, ma anche di coraggio e di contegno, di durezza e di determinazione, di fermezza e di lucida volontà. Di fede e di potere. Quattro giorni massacranti, che lei avviò scegliendo di continuare a indossare il tailleurino rosa macchiato di sangue che portava al momento dell’omicidio (“Voglio che vedano ciò che hanno fatto a John”) e che concluse decidendo di seguire a piedi, vestita di nero e avvolta in un lungo velo, per le strade di una Washington invasa da almeno un milione di persone, il carro che portava il feretro del marito alla cattedrale di St. Matthew. Ma anche quattro giorni al termine dei quali era riuscita a trasformare John Kennedy in una leggenda, e insieme a definire come lei stessa sarebbe stata ricordata, entrando così, a sua volta, nel mito. Così scrisse, allora, il quotidiano londinese London Evening Standard: “Jacqueline Kennedy ha dato al popolo americano una cosa che gli era sempre mancata: la maestà”.
Larraín, autore di pellicole quali “Il club” (sul tema dei preti peccatori, criminali e pedofili) e la trilogia “Post Mortem”, “No. I giorni dell’arcobaleno” e “Neruda”, incentrata sulla dittatura di Pinochet, realizza con “Jackie” un film non facile ma molto bello, che parte triste e malinconico per diventare, col passare dei minuti, quasi ipnotico. Natalie Portman (nomination all’Oscar come migliore attrice protagonista) non è brava: è mostruosamente brava. La sua interpretazione è una sorta di lungo monologo nel corso del quale, solo apparentemente fragile e insicura, ricorda, racconta, immagina, soffre, analizza, piange, sceglie, decide. Andando a toccare, con grande talento, i più svariati e contraddittori livelli emotivi della “sua” Jackie. La First Lady che ne emerge (tra l’altro Jacqueline detestava essere chiamata così, diceva che le sembrava il nome di un cavallo) è superba. Intorno a lei, solo sfumate comparse, fantasmi appartenenti alla Storia, tuttavia relegati a ruoli marginali. Come il vice-presidente Lyndon Johnson, il cui unico pensiero sembra essere quello di giurare e di fare al più presto il proprio ingresso con la moglie alla Casa Bianca. E compreso lo stesso cognato Robert, che pure le fu particolarmente vicino in quei giorni (e che tra l’altro morirà, ucciso come il fratello John, cinque anni dopo a Los Angeles). Ma il sogno di John e Jackie, e della loro America, si è infranto, e non tornerà più.
“Chiedi a ogni persona se ha sentito la storia – il brano che chiude il film è cantato da Richard Burton, che di “Camelot” fu interprete, nei panni di Re Artù – e raccontala chiara e forte, se non l’ha sentita: racconta che una volta è esistito un fuggevole momento di gloria, chiamato Camelot”.
Oltre alla candidatura della Portman, “Jackie” si presenta alla Notte degli Oscar con altre due nomination: per la miglior colonna sonora e per i migliori costumi.