Natura politica, varie opportunità e complesse formule produttive condizionano il teatro. E il sistema è allo sbando

(di Andrea Bisicchia) Il sistema teatro è alquanto complesso, fa capo a un Ministero apposito che ha il compito di operare delle distinzioni riguardanti le varie formule produttive, distinguendo tra quelle che hanno valore artistico e quelle che non ce l’hanno, con risultati , spesso, contraddittori che creano delle perplessità nella distribuzione del FUS, il cui compito di controllo risulta molto superficiale, dovendo ispezionare, in che modo, le produzioni corrispondano all’assegnazione dei fondi, produzioni di cui fanno parte gli artisti, gli  organizzatori, gli amministratori, i tecnici, i responsabili della comunicazione etc.
Queste funzioni hanno degli interlocutori, che sono i critici, i mass-media, il pubblico, oltre che i molteplici teatri dislocati nella penisola, nei quali occupa un posto referenziale l’Assessore alla cultura.
Si tratta di una catena, che coinvolge chi fa teatro, anche se occorre fare delle distinzioni tra teatri con una identità culturale ben nota, e teatri da intendere come contenitori di spettacoli da offrire, stagionalmente, ai propri cittadini e che si caratterizzano per essere un prodotto immesso nel mercato, con scelte che hanno, come referente, un gusto che tiene conto della storia delle proprie Province.
Esistono dei teatri che vantano un contesto specializzato, oltre che una lunga continuità nella direzione artistica e che hanno formato un corpo sociale ben rappresentato dal suo pubblico. Quello di Milano, per esempio, è diverso da quello di Roma, dove non è mai esistita una continuità direzionale, così come è diverso il pubblico di Torino da quello di Genova, di Venezia, da quello di Trieste, di Palermo, da quello di Catania, etc. Stiamo parlando di città che vantano una tradizione, una storia, interrotta, soltanto, quando la politica decide di cambiare direzione.
Il teatro vive drammaticamente queste cesure che coinvolgono la sua vitalità artistica e organizzativa e che finisce per insospettire sia il critico che gli spettatori di professione, quelli che lo frequentano da sempre, che creano degli alti e bassi che spetterebbe al Ministro o al suo Direttore Generale analizzare, solo che le loro analisi sono di natura politica e di opportunità che, non sempre, corrispondono ai criteri di scelta, spesso improvvisati, come si evince, per fare un esempio recentissimo, dai verbali sbagliati sui “Progetti speciali” 2022, con l’assegnazione di soldi a raffica per ricorrenze e centenari, senza che vengano analizzati i veri costi, con l’uso di parametri simili in situazioni e in luoghi diversi.
Quel che si nota è che il sistema teatro, nell’ultimo decennio, appare allo sbando per una sempre più crescente crisi di identità, oltre che di creatività e per un impulso alla ripetitività, tanto che, fatta qualche eccezione, una programmazione vale l’altra.
Non potendoci essere alcuna modificazione, tutto appare immobile, soprattutto, nell’uso del linguaggio scenico, dove l’originalità viene scambiata col volere essere originale a tutti i costi, dando vita a delle mostruosità. Non si registrano delle vere irruzioni, non c’è più scandalo, ma solo scandalismo e non si vedono, all’orizzonte, nuovi stili perché non si nota alcuna evoluzione, bensì una semplice protezione che evidenzia una continuità senza scosse, senza strategie, senza garanzie per il futuro. Eppure tutti sono convinti nel continuare a dire che il teatro dovrebbe cambiare le società o, almeno, contribuire a trasformarle, solo che anche il tempo degli avanguardismi sembra del tutto tramontato.