
Paolo Pierobon e Giuseppe Battiston in “Morte di Danton” con la regia di Mario Martone (foto Mario Spada)
MILANO, mercoledì 2 marzo ► (di Paolo A. Paganini) Georg Büchner, grande talento tragico, scrisse “La morte di Danton” (1835), consacrato capolavoro storico-romantico, a soli ventidue anni (concluse la sua tormentata esistenza solo due anni dopo). In questo dramma descrisse gli ultimi avvenimenti che precedettero la morte di Danton, di Camille Desmoulins e degli altri capi girondini, finiti sula ghigliottina come controrivoluzionari.
Per un lontano ma doveroso ricordo milanese, riportiamo alcune note sulla mess’in scena che ne fu fatta al Piccolo Teatro di Via Rovello a fine dicembre del 1950. Allora la regia fu di un altro giovane, il ventisettenne Giorgio Strehler, che seppe realizzare “l’atmosfera agitata ed appassionata di quegli ultimi momenti della Rivoluzione francese, quando Robespierre e Saint-Just facevano condannare Danton e i suoi amici… (Franco Catalano, “Il Nuovo Corriere”, Firenze, 21 dicembre 1950). E Renato Simoni, nell’elogiare “la stupenda prova” del giovane regista, ne scrisse come “il risultato di una fantasia, di un estro, di una bravura tecnica eccezionale in quel piccolo palcoscenico, giovandosi un po’ di certi passaggi in platea e di certe apparizioni nelle gallerie...” (“Il Dramma”, Torino 15 gennaio 1951).
In realtà Strehler, in così esigui spazi, riuscì a muovere una trentina di personaggi sfondando l’azione del palcoscenico tra platea e galleria (sconcertando non poco il pubblico), muovendo la volubile e disperata plebaglia, gli esaltati capipopolo e i mollicci giudici della Convenzione e del Comitato di salute pubblica in un tragico e sanguinario gioco di violenze e di passioni.
Ricordiamone i caratteri, che fra un po’ ci verranno buoni.
Da una parte il partito più moderato, rappresentato da Danton e dai suoi amici, che ragionavano sulla necessità di porre fine al Terrore, dall’altra la fazione estremista, capeggiata da Robespierre, il quale accusava i moderati di tradire la Rivoluzione. Danton, uomo di gaudiose e carnali degustazioni esistenziali, pensava che nessuno avrebbe osato toccare lui, l’uomo della Rivoluzione, il simbolo stesso di tante certezze repubblicane. Così trascurò gli avvertimenti degli amici, anche perché, alla visione d’un popolo ormai degradato, una fatale stanchezza si era impossessata di lui. Troppo tardi reagirà con ritrovato vigore al Tribunale rivoluzionario, che lo condannerà a morte, voluta da Robespierre e dallo stesso popolo, esasperato dalla fame, dalla miseria e smanioso di sangue e di vendetta contro i benestanti come Danton.
Il riferimento all’antica e gloriosa mess’in scena al Piccolo Teatro è dovuto a un paio di singolari coincidenze. Nel gennaio del ’51, infatti, l’edizione di Strehler andò in tournée al Carignano di Torino.
Ora, dopo 65 anni, il Carignano contraccambia la cortesia in un allestimento alla pari, con una “Morte di Danton”, firmata da Mario Martone, regista di cinema (ultimo successo “Il giovane favoloso”) e di teatro, che, dopo il debutto dell’8 febbraio scorso allo Stabile di Torino, ha portato ora al Piccolo Teatro – nella grande Sala Strehler – con fedele rispetto filologico e rigore drammaturgico e scenico, manovrando l’imponente distribuzione dei personaggi in un affascinante allestimento, a sua volta non resistendo alla tentazione di portare l’azione fuori dalla pur imponente piazza d’armi del palcoscenico del Teatro Strehler.
L’idea registica qui ci è parsa sprecata. Nella vecchia edizione di Via Rovello era una necessità dovuta alle ristrettezze dello spazio, che oggi son venute meno nella ben più capiente Sala Grande. Tra l’altro, con questo sfondamento oltre il palcoscenico, viene se non dispersa almeno attenuata la formidabile e bellissima concezione scenografica (dello stesso Martone) di “tagliare” il palcoscenico con quattro/cinque sipari di velluto rosso, che delimitano, di volta in volta, lo svolgersi – quasi a sequenza cinematografica – delle concitate azioni, ora su uno spazio ora sull’altro a seconda che si apra o si chiuda l’uno o l’altro sipario. Tra l’altro la dispersione dell’azione drammaturgica, frazionata tra palco, platea e gallerie, toglie consistenza numerica alle masse, che pur essendo interpretate da una trentina di attori, sul palcoscenico avrebbero avuto un imponente e maggiore impatto.
Ma è una piccola critica che si perde nell’insieme d’un giudizio che raggiunge talvolta vertici d’entusiasmo, come l’incontro chiarificatore tra Danton e Robespierre, nelle loro inconciliabili posizioni ideologiche. Robespierre è un fanatico e sanguinario moralista che, in una Rivoluzione infinita, usa il Terrore a difesa della Virtù contro il Vizio; Danton è invece ormai stanco di teste mozzate a distanza di cinque anni dalla Bastiglia (siamo nel 1794), ma soprattutto, gaudente epicureo e raffinato. Predilige ormai puttane e liete compagnie alle azioni rivoluzionarie. Eppure, lucido e rassegnato nel prevedere la fine, dirà al popolo affamato: voi volete il pane, avrete le nostre teste, voi volete bere, avrete il nostro sangue.
Giuseppe Battiston, un grosso attore dal pensiero arguto e sottile, è il moderato e stanco Danton, amante degli agi e ormai disgustato da tanta violenza, ma al processo ritroverà la vecchia grinta del trascinatore di popolo. Troppo tardi.
Colloquio e processo: memorabili.
Un assatanato, luciferino, forse folle, Robespierre, che si ritiene un novello messia. Che sacrifica senza essere sacrificato (ma poco dopo finirà anche lui sul patibolo), è impersonato da Paolo Pierobon, grandissimo, multiforme interprete nel toccare le più disparate gamme espressive dell’esaltazione, dal torvo al fosco.
Le più di tre ore del dramma (1 ora e 45 il primo tempo, 1 ora e 10 il secondo), con alcuni momenti di letargica stanchezza (che forse andavano alleggerite con qualche taglio, specie il finale, insopportabile), è quasi tutto incentrato sulle due storiche, tragiche figure, con un generoso contorno d’intrepidi comprimari, da Denis Fasolo (Camille Desmoulins), a Massimiliano Speziani (Marie-Jean Hérault de Séchelles), e ancora: Alfonso Santagata (Lacroix), Roberto De Francesco (Philippeaux), Irene Petris (Lucille Duplessis). Tutti ghigliottinati insieme con Danton, in una stupenda, intensa scena della lama che cade sui condannati in ginocchio, coperti dalla massa della plebaglia in festa. E poi ancora: Fausto Cabra, Roberto Zibetti, Gianluigi Fogacci, Giovanni Calcagno, e – da sottolineare – Paolo Graziosi, in uno stupenda lezione- monologo di cinica teologia. Un plauso anche ai bei costumi, di cromatico effetto (Ursula Patzak).
Pubblico in sala da grandi occasioni. Tripudio finale. Si replica fino a domenica 13