Nella mitologia dei videogiochi. E con Spielberg siamo già nel 2045, tra baraccopoli, inquinamento e realtà virtuali

(di Marisa Marzelli) Steven Spielberg non finisce di stupire. A 71 anni, le due anime della sua creatività e visionarietà cinematografica sono più vive che mai. L’1 febbraio è uscito The Post, incentrato sui “Pentagon Papers”, lo scandalo governativo rivelato dalla stampa che fu il preludio del caso Watergate. Nemmeno due mesi dopo arriva sugli schermi Ready Player One, tuffo acrobatico nella mitologia dei videogiochi stracarico di citazioni sulla cultura pop degli Anni ’80. Ma siamo sicuri che anche un film come questo non abbia tra le righe un significato politico?
Quando il regista di Cincinnati si dilettava con Indiana Jones eJurassic Park i critici accigliati lo accusavano di costruire “americanate” per un pubblico rimasto bambino. Con Schindler’s List li zittì. E da allora in poi la sua è stata una filmografia sulle montagne russe. Alternando contenuti drammatici e fiabe tecnologiche.
Con Ready Player One si va ancora oltre. Steven Spielberg cerca di concentrare in un solo film una summa della cultura popolare scaturita dai videogiochi, che nutre l’immaginario collettivo dei giovani. Ma non solo. Se i ragazzi si immergono in universi avventurosi ed adrenalinici per sentirsi degli eroi, quanti cinquantenni calvi e con la pancetta s’inventano profili facebook distanti dalla realtà? Il meccanismo è simile. Ma il linguaggio diverso.
Perciò, chi non ha dimestichezza con i videogames faticherà un po’ a ritrovarsi nel mondo di Ready Player One (per inciso, il titolo rimanda alla schermata di avvio dei videogiochi prodotti all’inizio degli Anni ‘80).
La storia nasce dal romanzo best-seller d’esordio (2010) del 46enne Ernest Cline, anche co-sceneggiatore del film. La trama principale è abbastanza semplice. Il genere di riferimento è la fantascienza-distopica. Siamo nel 2045. Mentre nella vita reale domina l’inquinamento e la popolazione vive in baracche, molti si consolano con la realtà virtuale di OASIS, creata da un programmatore guru (l’attore Mark Rylance; con Spielberg ha già lavorato ne Il ponte delle spie – vincendo l’Oscar – e Il Grande Gigante Gentile) che sembra riassumere in sé tracce di Steve Jobs e Mark Zuckerberg.
Quando l’inventore di OASIS muore, lascia un messaggio-testamento a tutti i giocatori: chi, superando tre prove, vincerà una gara fatta di indovinelli e indizi nascosti contenuti nel gioco stesso ne diventerà il ricchissimo proprietario. Si scatena la caccia al premio, che vede in pista tra gli altri una multinazionale ingolosita dalla possibilità di inserzioni pubblicitarie d’oro. Nel mondo di OASIS si gioca con un avatar (la rappresentazione di sé in internet, che può essere molto diversa dal soggetto reale). Tra i partecipanti c’è l’adolescente brillante ma timido Wade (interpretato dalla stella in ascesa Tye Sheridan: ha debuttato con Malick e recitato in diversi film di supereroi), che vive dentro un vecchio furgone incastrato in un posteggio di roulotte fatiscenti, come dire in una bidonville. Ma in rete Wade è Parzival (un cavaliere, un eletto). Per raggiungere l’obiettivo, Parzival si allea con quattro altri avatar, una ragazza in moto, un robot forzutissimo, due giapponesi (omaggio all’animazione del Sol Levante). Il film spazia dentro e fuori la realtà virtuale e quando Wade (e con lui gli spettatori) scoprirà la vera identità degli altri, non mancheranno le sorprese. Intanto la multinazionale non molla la presa e insegue i cinque ragazzi anche nella realtà. È chiaro che alla fine vinceranno loro, perché hanno coraggio e passione, dopo un percorso anche di formazione molto impegnativo. Wade gestirà OASIS decidendo di spegnerla un paio di giorni la settimana. È un compromesso, ma già un passo avanti per ricordare che vivere di sogni e d’immaginazione può essere gratificante, ma è impossibile un distacco totale dalla realtà. Spielberg, si sa, preferisce l’ottimismo e non è mai del tutto radicale (qualcuno avrebbe preferito che OASIS venisse spenta). La sotterranea parte politica del film sta forse proprio nella necessità di un compromesso per evitare che il mondo digitale ingoi del tutto, spesso senza che gli utenti se ne rendano conto, la percezione e l’immersione nell’esistenza reale.
La fattura di Ready Player One è invece tutta un’altra storia. In versione 2D e 3D, alterna live action, motion capture e animazione al computer con l’effetto di assoluta velocizzazione delle immagini e del ritmo. Il continuo giostrare tra due mondi paralleli, quello vero e il virtuale, permette scelte tecniche anche inedite, sfruttate dal punto di vista delle citazioni, che sono di immagini, oggetti, musiche, film, serie tv, personaggi, situazioni… con un rimpallo divertentissimo per chi riesce a scovare riferimenti grandi e piccoli (il ché è anche una caratteristica dei videogiochi, ricchi di easter-egg – letteralmente uova di Pasqua – cioè di contenuti nascosti da individuare). Basti dire che la prima prova da superare per assicurarsi il possesso di OASIS consiste in una corsa motorizzata a New York dove si trovano affiancate all’auto di Parzival la leggendaria De Lorean di Ritorno al futuro e la moto dell’anime Akira. A fare da ostacoli anche King Kong e un tirannosauro di Jurassic Park. Una sequenza è interamente dedicata a Shining di Kubrick (naturalmente rivisitato) e un’altra alla scena della pista da ballo de La febbre del sabato sera, ma con i ballerini che fluttuano nel vuoto e con l’accompagnamento musicale di Stayin’ Alive dei Bee Gees, una delle colonne sonore, assieme ad altre famose e qui ricordate, degli Anni ’80.
Nel libro c’erano anche vari riferimenti ai film di Spielberg, ma il regista ha voluto ridurli, per evitare il sospetto di autocelebrazione. Comunque, si riconoscono almeno passaggi topici delle avventure di Indiana Jones. Sulle citazioni da videogiochi famosi mi astengo per incompetenza. Una cosa risulta però evidente, ed è che l’estetica di Ready Player One ha affinità pure con quella dei film di supereroi.