(di Andrea Bisicchia) La Giustizia non può ritenersi, certo, una categoria instabile, lo potrà essere il giudizio, perché appartiene alla contingenza. Esistono, però, forme diverse di giustizia, quella religiosa, dal valore metafisico, quella sociale, legata al mondo della sussistenza, quella politica, la più labile e contraddittoria, quella giuridica che deve confrontarsi con la legge e quella filosofica dal valore ontologico.
Emanuele Severino, il nostro più grande pensatore, ha pubblicato, per l’editore Adelphi, “Dike”, a cui dà un significato particolare, definendola: “l’incondizionata stabilità del sapere”, le cui origini fa risalire alla definizione data da Aristotele che l’aveva concepita come “il principio stabile”. Ciò che a Severino interessa sottolineare è proprio il concetto di stabilità, inteso come rimedio contro il dolore e la morte che sono fonte di scissione. Per il filosofo bresciano, proprio la scissione e la distruzione dell’essere sono da ritenere impossibili, essendo l’unità del tutto, non tanto una meta da raggiungere, quanto la dimora mai abbandonata dall’uomo che, da sempre, aspira a quella unità per rimarginare la ferita apportata dalla scissione. In uno studio precedente, Severino aveva scritto: “la totalità dell’essente è un insieme infinito, nel senso che lascia fuori di sé il nulla, ossia non lascia alcun essente al di fuori di sé-l’infinità del tutto” (“La Gloria”, 2001, pp. 145).
Il tema dell’unità attraversa gran parte della ricerca severiniana ed è legato a quello dell’eternità che egli analizza partendo da un frammento di Anassimandro: “Principio degli esseri è l’infinito, da dove infatti gli esseri hanno origine…”. Anche Parmenide affermava un simile concetto: “Il tutto è uno, il molteplice non esiste”, a cui faceva eco Eraclito per il quale. “È il senso del tutto che permea tutto”. Nel “Parmenide” di Platone, Socrate rispondendo a una domanda di Zenone, dice: “Non mi stupirei se qualcuno dimostrasse che tutto è uno perché partecipa dell’unità, ed è anche molti perché partecipa della pluralità”.
È chiaro che nel concetto di unità, di infinito, di eternità, va individuata anche la struttura originaria del destino, mentre nel concetto di divenire è implicita la separazione, e gli Enti, nel momento in cui vivono separati, sono soggetti alla distruzione, perché hanno violato l’essere sé, la vera sede dell’Ente, la cui dimora è eterna. Partendo da Anassimandro e da Parmenide, Severino asserisce che: “Dimorando nell’Uno, ogni contrario è se stesso, proprio perché si oppone al proprio contrario, rimanendo peraltro unito”. Dike va, dunque, concepita come la non separazione, ed è simile al Dio del Vecchio Testamento, origine del tutto, dell’Ente eterno, della suprema verità innegabile (Archè). Sbaglia chi legge Severino come il filosofo del nichilismo, inteso come l’essere in preda del nulla, perché se l’essere diviene, esce dal nulla e vi ritorna, affermando, così, che l’unità dell’essere sia impossibile. Il nichilismo è abbandono della casa dell’essere, il quale sopporta inalterato persino l’aggressione della tecnica. Per superare la deriva nichilista bisogna ammettere che non è consentito all’Essere di non essere, proprio perché l’Essere in quanto Essere, è immutabile. La teologia della Chiesa non può non prendere atto del pensiero severiniano.
Emanuele Severino, “Dike”, Adelphi Edizioni, 2015, pp. 374, € 38