Nell’antico rito degli uomini-albero la fusione tra la terra e l’umano

Foto da _Alberi_(di Paolo Calcagno) Il culto e il sogno, l’immaginario e il reale, il paesaggio e il personaggio, Shakespeare e la Basilicata. Michelangelo Frammartino, 45 anni, regista calabrese di formazione milanese (“Il dono”, Le quattro volte”), all’originalità dei temi che racconta associa il fascino e la profondità di una ricerca stilistica che punta a destrutturare le forme narrative, ad allentarne i bordi e a violare i confini dei linguaggi espressivi, com’è spesso tipico, arditamente e irriverentemente tipico, di chi proviene dalla Videoart. La sua cineinstallazione “Alberi”, dopo i trionfi al Moma di New York e nelle gallerie d’arte di Copenaghen, è il pezzo pregiato di Filmmaker, storico Festival di ricerca (Milano, fino all’8 dicembre) che il direttore Luca Mosso ha opportunamente dedicato al ricordo di Paolo Rosa, artista e maestro di “Studio Azzurro”, scomparso l’estate scorsa.
Significativamente collocata nella sala del cinema Manzoni, riaperta per l’occasione e già destinata alla trasformazione in spazio per il mondo degli affari e della merce, “Alberi” ci porta nei boschi della Basilicata per raccontarci il rito dei “romiti”, gli uomini-albero di Satriano della Lucania che, secondo il culto arboreo di origine medievale, nel periodo di Carnevale si vestivano interamente di edera e impugnando un bastone rivestito di un ramo di ginestra bussavano alle porte del paese per chiedere l‘elemosina. “Era un modo per mendicare senza perdere la faccia, di trovare una solidarietà con i paesani sotto mentite spoglie –spiega Michelangelo Frammartino -. L’uomo-albero appartiene a una tradizione ormai in abbandono. Nel 2011, a Satriano, qualche romito sfilava tra le maschere di “Scream” e di Obama. Il rito non esiste più. Così ho pensato di ricrearlo, ma reinventandolo in direzione della collettività: invece di uno o due romiti, ne ho vestiti cento e ho chiesto loro di dirigersi in processione verso il centro del paese e di occupare interamente la piazza, trasformando in una specie di foresta il luogo pubblico per eccellenza. Non è un’operazione-nostalgia quanto il tentativo di eliminare i confini, rompere le distanze tra uomo e paesaggio“.
Dal buio della notte nei boschi di faggio alle prime luci dell’alba fino alla scoperta della presenza di un villaggio isolato, dalle porte delle case escono uomini che in processione raggiungono il bosco. Lì si vestiranno di edera, trasformandosi in romiti, uomini-albero che celebrano la fusione di umano e vegetale, la fusione dell’uomo con la terra, il cosmo, il Tutto. Terminata la vestizione, i romiti come un esercito vegetale, tornano nel paese fino a affollare la piazza centrale. La loro moltitudine danzante finirà però per ingoiarci e riportarci nelle tenebre iniziali, dalle quali si uscirà con una nuova alba, in un loop senza fine che permette allo spettatore di determinare l’inizio e la fine del film.
Le immagini di Frammartino, di chiari riferimenti scespiriani (“la foresta che cammina”, il fitto bosco di faggi), sostenute da efficaci tracce sonore, producono effetti immersivi nello spettatore che conducono all’assopimento e al “sogno”. Il verde che stordisce della natura si cala sullo schermo nel buio della notte completando l’illusione narrativa con l’eliminazione della distanza tra paesaggio e personaggi. “Il mio lavoro filmico – conferma Frammartino – punta a raccontare l’indebolimento del soggetto in funzione di una maggiore ricchezza interpretativa. Se nell’inquadratura la distanza tra figura e paesaggio sfuma fin quasi a scomparire, sono i parametri primi dell’immagine che vengono a cadere. E allo spettatore tocca vivere uno spaesamento molto costruttivo che parte dalla decostruzione della visione e giunge verso nuove prospettive di visione“.

“Alberi”, regia di Michelangelo Frammartino. Italia, 2013