Neorealismo e Spazialismo contro “l’arte di regime”. Ma ecco l’esasperato e doloroso realismo “popolare” di Ruffini

BAGNACAVALLO (RA), venerdì 19 febbraio ►(di Andrea Bisicchia) Visitando la mostra di Giulio Ruffini, al Museo Civico delle Cappuccine di Bagnacavallo, si rimane colpiti dalla potente maniera, tutta romagnola, nell’affrontare il realismo nell’arte, alquanto allineata al neorealismo degli anni Cinquanta, quando è iniziata l’attività artistica di Ruffini, subito scoperto da un critico importante come Raffaele De Grada, che ne curò la prima monografia, edita dalla Bottega di Ravenna. Perché De Grada? Perché lui faceva parte del Gruppo milanese di Corrente, a cui avevano aderito pittori come Birolli, Sassu, Treccani, Migneco, Morlotti, Guttuso, di cui Ruffini era amico, insieme a Vespignani, tutti artisti impegnati al recupero di un nuovo realismo che rispecchiasse gli anni del secondo dopoguerra, benché non si esaurissero soltanto in questa tipologia di espressione artistica, visto che Milano, sempre in quegli anni, fu la sede dello Spazialismo di Fontana.
Sia il neorealismo che lo Spazialismo mostrarono subito di essere dei movimenti di rottura nei confronti dell’arte del regime e, soprattutto, del “Novecento” di Funi, Marussig, Oppi, sostenuti dalla Sarfatti, che oscillavano tra un realismo metafisico e uno magico.
La Bassa Romagna, non vantava un cenacolo come quello di Corrente, ma ne aveva costruito uno attorno al maestro Luigi Varoli, amico di Depero e Pratella, nato a Cotignola, la patria del primo Sforza, di nome Attendolo (1369-1424), di cui facevano parte, oltre Ruffini, di Bagnacavallo, Umberto Folli, Domenico Panighi, entrambi di Massalombarda, e Gaetano Giangrandi di Bertinoro. Cos’hanno, costoro, in comune col movimento di Corrente? L’antifascismo, l’antimodernismo, un umanesimo, impegnato nel sociale, una nuova coscienza morale e politica e, in particolare, uno amore sviscerato per la realtà che guardava persino alle esperienze del realismo tedesco, quello della Nuova oggettività, che faceva capo a Kokoschka, Kirchner, Dix, Schad, fatta conoscere, in Italia, da una grande mostra alla Rotonda di Via Besana, curata negli anni Settanta da Giovanni Testori.
I pittori di questo movimento avevano acutizzato il realismo, esasperandolo fino alla oscenità e alla mostruosità, solo per denunziare una situazione sociale che aveva, già in sé, dell’orrido. Alla Nuova oggettività avevano guardato Birolli e Guttuso, così come avevano guardato i pittori riuniti attorno al cenacolo di Viroli.
C’è da dire che il realismo di Ruffini e compagni, risentiva molto della comunità in cui era nato, quella che aveva dato molte vite alla resistenza, o che aveva sudato per “la vita dei campi”. Costoro si mettono alla guida di una nuova coscienza artistica, facendo uso di un realismo “popolare, autentico, spontaneo” come lo definisce il curatore della mostra, Diego Galizzi. È un realismo la cui violenza andava ricercata nella pennellata forte che si sforzava di rappresentare il duro lavoro della terra, la fatica dei braccianti, dei contadini, degli operai delle saline, del dolore che ne conseguiva, quello di chi si sente crocifisso a una realtà che sa di miseria e di povertà. Ruffini cerca di mettere in scena uno spettacolo che ha per protagonisti giovani fucilati, mamme e nonne addolorate, braccianti donne e maschi che vivono di stenti, ben rappresentati nelle Nature morte con fiaschi, funghi, pigne, mele e pere, frutti e fiori della campagna romagnola. Bellissimi sono i ritratti delle donne che troviamo protagoniste anche in opere composite come “Pietà per un bracciante morto” (1950) che sembra avere a che fare con certe fucilazioni di Goya o con certe opere teatrali di Lorca. Fu proprio quest’opera a impressionare sia De Grada che Prezzolini.
Straordinario il percorso espositivo dedicato alle Crocifissioni, da quella marrone, con una forte tinta rossa di una donna piangente e con uno slippino bianco che rende pudico il Cristo assassinato (v. foto). Le varianti della Crocifissione, più di dieci, sono accomunati a animali squarciati in un macello che fanno pensare a Bacon.
La mostra raccoglie una settantina di opere che riguardano il primo periodo e che vanno dal 1945 al 1966, quando Ruffini decide di voltare le spalle al realismo perché sente che la società è cambiata, essendo subentrata, a quella contadina, la società dei consumi e della tecnica. In questi ultimi anni, Ruffini compone opere che rappresentano certi “incidenti” causati dalla civiltà tecnologica, ce n’è uno del 1964 che fa pensare a certi quadri di Depero e di Boccioni per il dinamismo delle figure e per l’impatto coloristico, non manca qualche riferimento all’Arte Pop con i “Cartelli sulla strada” e “Uomo allo stop”.
In occasione della mostra è stato pubblicato un catalogo con testi di Eleonora Proni, Monica Poletti, Eliseo Dalla Vecchia, Paola Babini, Giuseppe Masetti, Orlando Piraccini e Diego Galizzi.

“Giulio Ruffini. L’epica popolare e l’inganno della modernità (1950-1967)”. Mostra dedicata a Giulio Ruffini. Museo Civico delle Cappuccine, Bagnacavallo. Fino al 2 maggio 2021. Ingresso gratuito.
www.museocivicobagnacavallo.it