Nessuno scommise su John Wick. Ci pensò il pubblico a decretarne il successo. E incassi internazionali da capogiro

(di Marisa Marzelli) John Wick è diventato una saga. Dopo il primo film incentrato su un killer professionista che non riesce proprio ad uscire dal giro (costato 20 milioni di dollari, ne ha incassati 90) arriva ora John Wick – Capitolo 2. È prevedibile almeno una trilogia. Il capostipite (2014) non fu preso molto sul serio dalla critica perché scambiato per un B-movie con qualche ricercatezza ma con un regista sconosciuto e come protagonista un attore in declino (Keanu Reeves). Il pubblico invece decretò a sorpresa il successo. Il fatto è che, pur trattandosi del classico action-movie con sparatorie e morti ammazzati, l’universo costruito attorno al plot era originale, intrigante ed elegante. E rilanciò Reeves.
Per John Wick – Capitolo 2, si è raddoppiato il budget e  tentato un interessante esperimento estetico. L’azione all’americana si fonde con le strepitose coreografie del noir di Hong Kong dei tempi migliori. Quello dei duelli stilizzati come balletti e delle colombe del primo John Woo. Ambientazione in una scura New York e a Roma. Che nell’immaginario anglosassone è un groviglio d’intrighi, tra basso impero e Rinascimento drammaticamente caravaggesco.
Stavolta, critica prodiga di lodi. Forse anche troppo. Ma è il caso di fare buon viso, perché gli incassi internazionali hanno già raggiunto quota 145 milioni di dollari.
Nel mondo della criminalità organizzata, John Wick è una leggenda: silenzioso, impeccabile, micidiale. Come si dice nel film, non è l’Uomo Nero, ma colui che uccide l’Uomo Nero. Dopo un’introduzione che sintetizza gli antefatti, l’eroe vorrebbe sparire nell’ombra, ma alle ferree regole malavitose non si sfugge, bisogna rispettarle. Wick, per uscire dal giro, era in debito con un viscido camorrista italiano (Riccardo Scamarcio) che si fa vivo per riscuotere il pegno, commissionando al killer l’uccisione della sorella (Claudia Gerini) per questioni di potere nel clan. Wick vola a Roma e si ritrova in un mare di guai. La trama non è granché, ma non è questo il punto.
Il punto è che i film di John Wick mettono in scena un affascinante mondo parallelo nel quale si muovono solo assassini. Non c’è la presenza della folla di gente comune, e quando c’è sembra essere inconsapevole del crimine organizzato, strutturato come una setta segreta e con codici solo suoi. Una società dall’estetica rarefatta e violenta mutuata dalla grafic novel più dark. Un mix tra auto d’epoca e armi automatiche di ultima generazione, dove si paga con monete d’oro, gli ordini vengono inviati alle vecchie centraliniste mentre queste li smistano ai destinatari con un sms e i contratti si siglano con un’impronta di sangue. Ma il meglio è il Continental Hotel, albergo di superlusso con sedi in tutto il mondo, aperto solo agli iscritti, cioè ai killer. È una zona franca dove tutti devono essere pacifici. Può capitare di incontrare il proprio sicario: i due si salutano e magari bevono un drink insieme. Al Continental la violenza è bandita, pena la “scomunica” dalla comunità criminale.
Per dare un’idea delle atmosfere è il caso di ricordare che il regista è Chad Stahelski, a suo tempo stuntman della trilogia di Matrix, dove appunto sostituiva Keanu Reeves nelle scene più pericolose. E di Matrix qui ci sono altre tracce, come l’incontro tra John Wick e il capo di una banda di criminali senza tetto interpretato da Laurence Fishburne, che nella trilogia dei fratelli Wachowski (oggi diventate sorelle Wachowski) era Morpheus.
Tra sgommate, sparatorie, abiti su misura confezionati con materiali che trattengono le pallottole e “sommelier” che consigliano le annate migliori delle armi, inseguimenti nei cunicoli delle Terme di Caracalla dopo che la Gerini si è svenata nella vasca da bagno con la dignità di una matrona dell’impero romano, John Wick arriva trafelato all’epilogo e il finale aperto prelude ad un terzo episodio.
Data per scontata la bellezza ipnotica della strana e straniante ambientazione, l’eccellente fotografia, l’abbinamento tra musiche e silenzi, il ritmo sempre sostenuto, l’impressioni è di trovarsi in mezzo al guado tra l’iperrealismo più popolare di Tarantino e l’algido clima del cinema di Nicolas Winding Refn (l’autore di Drive e dei misconosciuti Solo Dio perdona e The Neon Demon) dove la tragedia shakespeariana incrocia il fumetto alla Sin City.
Quanto agli aspetti più deboli: una certa ripetitività, Keanu Reeves sembra più in affanno rispetto al primo John Wick nelle scene d’inseguimenti e combattimenti, Riccardo Scamarcio come antagonista e villain pare piuttosto evanescente e non fascinoso come in certi film italiani.