No, domani non sarà un altro giorno per il “giocatore” di Dostoevskij. All’Out Off in prima nazionale

Milano. Mino Manni nel “Giocatore”, da Dostoevskij, all’Out Off, con la regia di Alberto Oliva.

Milano. Mino Manni nel “Giocatore”, da Dostoevskij, all’Out Off, con la regia di Alberto Oliva.

(di Paolo A. Paganini) “Via col vento”, il romanzo fiume di Margaret Mitchell, termina con la celebre frase di Rossella O’Hara: “Domani è un altro giorno” (poi consacrata nell’omonimo ed altrettanto famoso film). Sappiamo tutti che non sarà un giorno di speranza. Invano Rossella O’Hara attenderà l’affascinante Rhett Butler. A volte basta una frase per consolarci. O per salvarci. Un’illusione. Basta crederci. Cosa c’entra questo con Dostoevskij? Niente. Non sappiamo nemmeno se la scrittrice americana conoscesse l’autore russo. Ma anche nel romanzo breve “Il giocatore”, di Dostoevskij, ci sono gli stessi contenuti di follia e di speranza che accomunano Rossella e l’incallito giocatore Alekseij. Anche lui conclude la storia di quell’irrefrenabile vizio di vivere con la frase: “E’ possibile che io non capisca che sono un uomo perduto? Ma perché non potrei risorgere? (…) Domani tutto finirà!” Sappiamo tutti che domani non sarà il giorno della redenzione.
Niente e nessuno potrà distogliere “il giocatore” dall’ipnotico turbinio della pallina nella roulette. Nemmeno l’amore-odio per la misteriosa ed affascinante Polina, nemmeno le più care e premurose amicizie. Lo stordimento è totale. L’abisso, inevitabile.
Orbene, visto ora in uno striminzito allestimento all’Out Off di Milano, ad opera di Alberto Oliva, dobbiamo per forza rendere atto che non sarebbe stato possibile, in un’ora e sette minuti, restituire le atmosfere, le intricate vicende, in quella Roulettenburg, una Las Vegas ante litteram, animata da avventurieri, nobili, parvenus, usurai, ruffiani, donne-vampiro, sfruttatori, parassiti, tutti pronti a dannarsi per una vincita o una perdita, per poi ricominciare a vincere, a perdere e a dannarsi.
Ma nel romanzo dostoevskiano c’è qualcosa di più del terribile vizio (di cui fu tragica preda anche l’autore russo). C’è una cinica descrizione sociale di quel terribile 1865/66 (suo fallimento economico, rischio di perdere i diritti d’autore di tutti i suoi romanzi, frenetica stesura in contemporanea di “Delitto e castigo” e de “Il giocatore” dettati alla stenografa che poi diventerà sua moglie). Vi si descrivono vizi (tanti) e virtù (poche) di un’epoca prossima ad affrontare i futuri “Demoni”. E ce n’è per tutti. I russi? Senza dignità. I francesi? Sopportano qualsiasi offesa senza batter ciglio. I tedeschi? Avidi di ammucchiare ricchezze. E poi, e soprattutto, nel romanzo c’è il trionfale arrivo della vecchia nonna, che nessuno si aspetta, quando invece tutti si aspettano una morte ricca di promesse ereditarie. Un immenso colpo di teatro.
Tutto questo è impossibile che emerga dalla mess’in scena di Oliva. Bisognava ridurre, tagliare, amputare, sacrificare, e quello che soprattutto emerge è il rapporto (e qui tanto di cappello a Oliva) tra Aleksij e Polina: intenso, tragico seppure rapinosamente deviante. Ma funziona. In scena, con meritoria generosità, Mino Manni, fanatico del gioco, ma più ancora di Polina, che è una luciferina Elena Ferrari, e, anche in più parti, il circense croupier Davide Lorenzo Palla. Applausi di cordiale apprezzamento alla fine per tutti.
“Il giocatore”, da Fedor Dostoevskij, adattamento di Alberto Oliva e Mino Manni. Teatro Out Off, Via Mac Mahon 16, Milano. Repliche fino a domenica 30 marzo.

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