Nuovo Rinascimento Novecento: regie critiche, teatri stabili, avanguardie. E oggi? al Regio perfino la “Macelleria Verdi”

(di Andrea Bisicchia) Alle Arti, in genere, ciò che si chiede è il massimo di libertà, quella che, in politica, viene declinata come il massimo di libertà di espressione. Nell’arte e, in particolare, nel teatro, la libertà creativa è sempre stata concessa alle Avanguardie, il cui compito è stato e sarà sempre quello di chiudere col passato per progettare un futuro all’insegna di una nuova attività compositiva. Il Novecento è stato il secolo che, più di altri, si è caratterizzato per la nascita e le affermazioni delle Avanguardie che hanno trovato, il loro humus, in molte capitali europee. Il Futurismo nacque a Milano, il Surrealismo e il Cubismo a Parigi, il Dada a Zurigo, l’Espressionismo tra Dresda e Berlino.
In tutti questi movimenti, che hanno coinvolto l’attività teatrale, è prosperata l’idea di una libertà creativa che raramente si è trasformata in licenza, grazie alla genialità dei suoi artisti, cosa che è accaduta, nel secondo Novecento, quando sono prosperate le arti concettuali, quelle “povere”, quelle legate alle nuove cosmologie, come lo Spazialismo o l’Astrarte etc.
Un fatto è certo: quando la libertà diventa licenza, si assiste a qualcosa di degenerativo, nello stesso modo in cui l’eguaglianza si trasforma in egualitarismo o la politica in politichese.
È chiaro che, anche il teatro, dopo un lungo periodo aureo, dovuto alla nascita degli Stabili e all’affermazione della irripetibile stagione della regia critica, alla quale dobbiamo spettacoli memorabili e, per i quali, la creatività era stata la fonte principale, la stessa che permise la nascita di un nuovo Rinascimento, rimasto modello insuperabile per epigoni che, con poca fantasia, hanno trasformato la libertà in pura licenza, grazie alla quale, tutto è permesso, anche se non esiste una logica scenica.
Per un regista, che mette in scena un testo, rimane l’obbligo di chiedersi quale rapporto abbia con la realtà e con quali mezzi rappresentarla, pur consapevole che rappresentare sia più difficile che scrivere, dovendo coinvolgere linguaggi diversi, col compito di dare loro una forma unitaria e possibilmente chiara, e dovendo trasformare ciò che è in ciò che sarà, ciò che è fuori in ciò che è dentro, solo che, questa trasfigurazione, non deve sfuggire alle regole della logica che richiedono le forme del ragionare, col compito di rendere esplicito ciò che, in un testo, si presenta  implicito. Quando il regista sfugge a queste regole, finisce per violentare il testo, solo che c’è violenza e violenza, c’è quella dello stupro e c’è quella dell’amore e della passione. Si violenta un testo che si ama, per renderlo sempre più chiaro a chi lo vede in scena, ma se lo si violenta con licenziosità, si parte dal presupposto che, con questa azione, non si ha alcun rispetto dello spettatore che, forse, per costui, addirittura non esiste.
Per raggiungere simili risultati, il regista violentatore esibisce gli strumenti che ha utilizzato, provenienti dalle più svariate tecnologie che, a loro volta, hanno finito per uniformarsi, tanto che, negli ultimi tempi, chi va a teatro, crede di vedere sempre lo stesso spettacolo, con grandi schermi dove si proietta di tutto e di più, un  fenomeno che ha coinvolto, recentemente, il teatro lirico (a dire il vero, svecchiandolo), come è accaduto, per esempio, al Regio di Parma, in occasione del “Simon Boccanegra”, ottobre di quest’anno, col pubblico inferocito, perché la regista Valentina Carrasco, per dare il senso della violenza implicita nell’Opera, ha usato carcasse di bue squartate (v. foto in alto) con una immagine, non del tutto nuova, perché l’ha ripresa dalla pittura espressionista, la quale, a sua volta, si era rifatta al bue squartato di Rembrandt.
Il teatro, fra tanti altri, ha un compito ben preciso che è quello di educare allo spirito critico, a formare delle menti che lo sappiano fare, a creare delle attitudini al bello, anche per far meglio capire le complessità e le inquietudini dei propri tempi.