(di Andrea Bisicchia) – Ogni tempo ha il suo teatro, c’è stato il tempo del Grande attore, quello degli Autori, quello della Regia critica, quello delle Cooperative, della sperimentazione, quello della scrittura scenica performativa. Ogni tempo ha avuto, magari col contributo del teatro d’Arte, un rapporto privilegiato con la propria cultura.
Nel secondo dopoguerra, la cultura dominante è stata quella marxista, professata da scrittori, pittori, filosofi, registi, tutti attenti ad evidenziare un impegno sociale, oltre che politico e a fare delle loro opere una cassa di risonanza della nuova epoca, dopo la crisi e la sconfitta dei totalitarismi.
Sempre, nel secondo novecento, è stato riscontrato un “impegno” smisurato che, in parecchi casi, è coinciso con una smisurata creatività che è rimasta viva, non solo nella memoria di chi ha vissuto quegli anni, ma anche in una immensa rete di pubblicazioni accademiche che hanno tramandato alla storia quel periodo che, più volte, abbiamo definito “aureo”.
Si trattò di una vera e propria rivoluzione culturale, accompagnata da un dibattito che coinvolgeva, non solo gli artisti, ma anche i professionisti della critica militante, necessaria per verificare il loro lavoro. Quel tempo non conoscerà la parola “Oblio”, perché sui grandi registi, sui grandi attori e organizzatori, sui Dibattiti, è stato scritto di tutto, che è anche facile da consultare. In quel periodo sono nate forme nuove di drammaturgia, quella del “TEATRO DOCUMENTO”, del “TERZO TEATRO”, del “TEATRO DELLE COOPERATIVE”, che ebbe, come faro, la triade : PARENTI, TESTORI, SHAMMAH, del “TEATRO DELLE CANTINE”, della “SECONDA AVANGUARDIA”, che si è prolungata con alcuni suoi gruppi nel terzo millennio, non più con la carica eversiva di un tempo, ma con una maggiore attenzione ai ritrovati della tecnologia, del TEATRO DI NARRAZIONE, che stancamente è arrivato ai giorni nostri con un molle stampo cronachistico.
Erano gli anni durante i quali il teatro non aveva bisogno di forme astruse o paradossali per comunicare, il suo linguaggio scenico era comprensibile e non lasciava perplessi gli spettatori, ai quali non si chiedeva di essere “immersivi”, bastava che partecipassero all’evento con la loro intelligenza. Il teatro era pronto per essere interpretato storicisticamente ed essere attivo grazie a continue pubblicazioni, le stesse che hanno riempito le nostre biblioteche.
Quel linguaggio, oggi, ha perso il suo valore, come, del resto, ha perso qualità la cultura, non essendo più impegnata, perché diventata uno strumento relativo, alquanto usurato, senza una logica, senza ideologia, senza impegno sociale, senza una sua identità. Tutto appare soggetto all’improvvisazione, a un continuo scimmiottare le vecchie avanguardie, con l’ausilio di video-proiezioni, diventate limitative piuttosto che innovative, proprio perché usate da tutti indiscriminatamente.
Le nuove generazioni non vogliono sentire parlare di Maestri che hanno accusato di conservatorismo, di imborghesimento, di monotonia, senza accorgersi che monotono è proprio il loro linguaggio, supportato da un autoreferenzialismo smodato, tanto che durante lo spettacolo interrompono l’azione, per parlare di sé, in maniera abbastanza imbarazzante, cosa che non si sognavano di fare i Maestri della scena, come dire che, chi cerca l’avanguardismo parlando di sé non fa altro che operazione di retroguardia.
In verità, oggi si fa molto teatro e una “regia non la si nega a nessuno”. Cosa resterà dei tanti spettacoli che vengono anche autoprodotti? Ecco, lo spettro dell’Oblio, che si aggira proprio come lo spettro di Amleto. Ed ecco perché ci chiediamo, con insistenza, cosa rimarrà del teatro del Terzo Millennio, se non possiede una vera e propria arma di lotta per sconfiggere le malattie della civiltà, ormai imputridite? Vogliamo parlare di repertori? Vogliamo dire che, anziché vedere programmati i dubbi, le inconsistenze, le disuguaglianze del nostro vivere sociale, si portano in scena i loro surrogati, magari abbellendoli con apparati luminosi e con falsificazioni dei linguaggi.
Essendo specchio della realtà, il teatro deve portare in scena la realtà del suo tempo, non una sembianza di realtà, non una imitazione, né, tanto meno, dei brani, dei riassunti, deve saperla sbattere in faccia, magari sublimandola, evitando qualsiasi forma di travestimento e di facile eclettismo. Forse Il teatro avrebbe bisogno di stroncature, quelle che non ci sono più, perché è stato fatto di tutto per estinguere la critica. Vi ricordate i lunghi verbali della CONSULTA dei CRITICI? Vi ricordate i Documenti presentati dal PCI, PSI, DC? Vi ricordate i grandi spettacoli di Strehler, Ronconi, Squarzina, Nekrosius, Brook, solo per citare alcuni.
Oggi non c’è nulla che possa essere tramandato, ecco perché il teatro del terzo millennio è destinato all’OBLIO.
Per due mesi abbiamo letto circa trenta interventi di professionisti del teatro che, credo, nessun editore tramanderà alla Storia, con qualche pubblicazione, parecchi hanno fatto un elenco di numeri, ovvero di produzioni, di presenze del pubblico, di lavoratori dello spettacolo, nessuno ha teorizzato il presente, nessuno ha progettato un futuro. Per molti di loro bastano i teatri pieni, il resto non conta, però un teatro che non sappia definire se stesso è destinato all’Oblio, che non è cessazione della memoria, ma cessazione del pensiero, incapace di eternizzare quello che c’è e quello che non c’è.
È vero, bisognerebbe superare il passato per non essere schiacciati dal ricordo, e poi?
Quale sarà il presente del teatro, tra venti, trenta anni, se non lascia alcun “materiale” da tramandare?
Ogni epoca ha avuto, per il teatro, caratteri e definizioni pertinenti. E il nostro tempo? Sarà destinato all’OBLIO?
2 Settembre 2023 by