Olimpiadi del ’36: trionfalismo teutonico e mistificazioni, grandezze e miserie. Ne parla Buffa, il Paolini dello sport

BuffaFrusca BERLINO(di Emanuela Dini) Le Olimpiadi del 1936 dovevano mostrare al mondo la perfezione dell’organizzazione tedesca e la supremazia della razza ariana. Dovevano. Ma non fu proprio tutto così “perfetto”, e alle spalle del trionfalismo teutonico e del mito della forza e bellezza della Hitlerjugend immortalata dai filmati di Leni Riefenstahl ci sono tante storie che è stato comodo lasciare in secondo piano e far finta di dimenticare.
La storia della profonda amicizia tra l’atleta nero Jesse Owens, vincitore di 4 medaglie d’oro, e il biondo, alto, bello, occhio azzurro Carl Lutz Long, che più ariano non si può e affiderà suo figlio proprio a Owens; la storia del maratoneta coreano Son Kitei, costretto a correre e vincere – l’oro – con un altro nome e un’altra maglia (la Corea era sotto la dittatura giapponese, e aveva imposto ai coreani di cambiare persino il nome di battesimo) ma che riesce, sul gradino più alto del podio, a nascondere con l’alloro il simbolo nipponico; la storia del capitano del villaggio olimpico Wolfang Fürstner, di cui si scoprono le radici ebraiche pochi giorni prima dell’inaugurazione delle Olimpiadi e che morirà, ufficialmente, in un provvidenziale incidente d’auto.
A rievocarle e raccontarle ci pensano, con rigore documentaristico e passione narrativa, Federico Buffa e Paolo Frusca in “L’ultima estate di Berlino”, appena uscito per Rizzoli (pagg. 306, € 18.00).
Il libro nasce dallo spettacolo teatrale “Le Olimpiadi del ‘36” che Buffa sta portando in giro per l’Italia e Svizzera, due ore tese di monologo limpido, poetico, coinvolgente, documentatissimo che trasporta in “quello” stadio, raccontando storie vere senza retorica, senza stereotipi, con umanità, pancia e cuore, in perfetto stile da teatro civile applicato ai record. Il Marco Paolini dello sport.
«Avevamo raccolto moltissimo materiale, e solo una piccola parte è entrato nel testo teatrale, era un peccato lasciarlo nel cassetto, e così è nata l’idea del libro», raccontano gli autori. Che più diversi e complementari non potrebbero essere. Buffa, ex telecronista sportivo, grande esperto di basket e per anni volto di Sky Sport, piacevolmente incosciente nell’affrontare «ogni 15 anni una nuova vita e una cosa che non so fare», Frusca, bresciano «felicemente in esilio a Vienna», profondissimo conoscitore della storia e cultura germanica, ricercatore e documentarista implacabile.
Il risultato è un libro che tiene svegli di notte (e sono 300 pagine!), un puzzle di storie e di storia, dove le tensioni della competizione sportiva si mischiano a emozioni, sentimenti e amori sullo sfondo di una città, un popolo e una nazione che sta marciando trionfalmente e ancora inconsapevolmente verso l’orlo dell’abisso.