Origini del teatro indiano. Un tempio, dove erano invitati gli dei. E dove danza, mimica, canto e poesia erano tutt’uno

(di Andrea Bisicchia) Nella lapide in cui era nato si trova scritto: “René Daumal, poeta”. C’è modo e modo di intendere la poesia. Daumal ne fece un problema linguistico, quello di una lingua contaminata, soprattutto, quando decide di penetrare il linguaggio indiano e di crearsi una personale “Grammatica sanscrita”, avendo capito che, certi testi mitici o religiosi dell’India arcaica, dovessero essere letti in lingua originale.
L’Editore Adelphi, di Daumal, ha appena pubblicato: “Lanciato dal pensiero”, che raccoglie gran parte delle sue riletture e traduzioni di classici come “Rgveda”, “Bhagavadgita”, “Agnipurana”, ma soprattutto, in versione integrale, “Natyasastra”, ovvero il primo trattato di arte drammatica indiana, dove si recepisce che questa sia, prima di tutto, danza e rappresentazione mimata, oltre che canto e poesia. Arte totale, insomma.
L’autore distingue quattro stili drammatici:
“Il modo verbale”, dove il ruolo maggiore spetta alla parola;
“Il modo eroico”, che concerne i soggetti epici;
“Il modo della chioma”, che riguarda i sentimenti amorosi;
“Il modo violento”, tipico dei drammi sovrannaturali e magici.
Questi argomenti sono affrontati in 126 capitoletti, attraverso i quali, Bharata ricostruisce le origini divine del teatro, ricorrendo alle festività e utilizzando, come argomento, il “Sapere sacro”. Ogni testo è preceduto da un Prologo che sintetizza le provocazioni, lo scoppio di un conflitto, la scissione, i dissensi e la battaglia, come accade, per esempio, nel “Mahabharata”, in Italia noto per la messinscena di Peter Brook.
Non mancano le notizie riguardanti “la casa del teatro”, ovvero il tempio, in cui vengono invitati gli dei e dove i protagonisti, in parte celesti, ma anche spettri, gnomi, draghi, danno vita alla rappresentazione, che alimentano l’aspetto favolistico di questo teatro, il quale si caratterizza anche per l’uso della analogia che rimanda ai movimenti dell’universo, alle diverse manifestazioni della vita, incarnate nelle diverse fasi dell’azione.
In questo “tempio della scena”, sono ammessi anche i sacrifici rituali, a dimostrazione di come ci si trovi dinanzi a delle realtà cultuali che l’attore o il capo della Compagnia dovrà celebrare. Fondamentale è l’apporto musicale, ritenuto un modo di “lottare contro il tempo”, essendo la musica orientale ripetitiva, volendo dimostrare “la dolorosa consapevolezza del durare”. I musicisti indiani utilizzano il suono per mettere in evidenza il silenzio, come se, nella durata, si potessero scolpire momenti di comunione col silenzio.
Mi vengono in mente i versi di Ungaretti: “Io mi comunico col silenzio”. Alle origini del teatro indiano, troviamo dei “generi” che caratterizzeranno le origini del teatro occidentale, come l’epica, la danza, la musica, la pantomima, i riti, le cerimonie, i sacrifici, inoltre, per quanto riguarda l’architettura, Bharata ci dice che dovesse avere la forma di una galleria rialzata, con sedili di mattone o di legno, non molto dissimili dai teatri greci delle origini, costruiti in legno e, successivamente, sulla roccia.
Il volume è diviso in due parti, suddivise, a loro volta, in tanti capitoli che attestano il percorso di assimilazione e di penetrazione, da parte di Daumal, della lingua e delle dottrine indiane.

René Daumal, “Lanciato dal pensiero”, Adelphi 2019, pp 300, € 22.