Oscar Wilde contro la Regina Vittoria e l’ipocrita perbenismo inglese. Più della sodomia, un peccato di presunzione

Riccardo Buffonini, Ciro Masella e Giovanni Franzoni (foto Laila Pozzo).

MILANO, sabato 21 ottobre ► (di Paolo A. Paganini) C’è un padre, sgradevole finché si vuole, che per difendere (salvare?) il giovane figlio dalle seduzioni intellettuali (e omosessuali) di Oscar Wilde, getta pesanti allusioni sulle tendenze sessuali del grande artista di successo.
Legittimo. O no?
Eppure non fu solo questo.
Era fin troppo facile giocare in casa in quell’epoca vittoriana, bigotta, ipocrita, spietata nel santificare la morale corrente contro ogni tentazione o trasgressione, come quella omosessuale. Oscar Wilde non capì che stava affrontando una guerra perdente: lui contro la Regina Vittoria. Che, comunque, ingiustizie e ipocrisie a parte, durante il suo regno (1837-1901), condusse l’Inghilterra a un lungo periodo di stabilità economica, di una florida espansione commerciale e coloniale, anche se rimaneva tragico e lacerante il divario tra classi povere e classi ricche. Grazie a un’astuta politica di compromessi e di faticosi equilibri, il partito liberale, difeso dalla sovrana, non poteva essere scalfito da nessuno. Tanto meno da Oscar Wilde.
Lo sfruttamento del lavoro minorile, l’analfabetismo, orari di lavoro massacranti, la prostituzione, l’alcolismo, la miseria economica delle famiglie, erano aspetti secondari rispetto al radioso avvenire della seconda rivoluzione industriale. E la Regina Vittoria rimaneva il simbolo della moralità, della sacralità della famiglia, dell’amor patrio. Era il mondo della cosiddetta età vittoriana.
Oscar Wilde, al di là della sua omosessualità, era dunque considerato un pericoloso elemento di disturbo e di sovversione. Nonostante la sua fama artistica, letteraria, poetica, pubblicistica, drammaturgica, o forse proprio per questo, andava messo nelle condizioni di non nuocere.
Quando, dunque, quel padre, sgradevole finché si vuole, tentò malamente, goffamente, di salvare il figlio sedicenne dalla sgrinfie del suo seduttore con l’accusa di sodomia, costrinse Oscar Wilde a denunciarlo per diffamazione. Wilde, in un atto di presunzione intellettuale, non capì che da quella denuncia sarebbe nato il suo annientamento umano e artistico. Non era più un padre che l’accusava. Era un’intera società che lo esponeva a una legge che condannava alla reclusione e ai lavori forzati i colpevoli di sodomia. Il processo per diffamazione contro quel padre, nel 1895, si risolse dunque tragicamente in un atto di accusa contro lo stesso scrittore, del quale, dopo tre processi, venne provata l’omosessualità, con relativa condanna a due anni di reclusione e ai lavori forzati. Ne morì, di lì a poco, nel 1901. Per inciso, la legge contro l’omosessualità venne abrogata solo nel 1954.
Orbene, la storia di questi tre processi a Wilde è raccontata nella superba scrittura che ne ha fatto Moisés Kaufman, in “Atti osceni – I tre processi di Oscar Wilde”, messi in scena all’Elfo Puccini da Ferdinando Bruni e Francesco Frongia, con nove ineccepibili interpreti, tra i quali subito nomineremo Giovanni Franzoni, che, nel ruolo di Oscar Wilde, è di una severità senza concessioni, rigoroso, misurato, nel crescendo di un pathos che passa dal sarcasmo all’ironia, dalla condanna delle ipocrisie alla distruzione morale e all’annientamento della creatività.
Kaufman mette in evidenza la disperata difesa di Wilde nel perorare la supremazia dell’arte sulla morale. L’arte, come divinità estetica, come fulgore dell’intelligenza, come trionfo superiore dello spirito, come creatività, come sublime e salvifica supremazia della poesia sulle meschinità del quotidiano, sulla spicciola miseria di rassicuranti ipocrisie morali, sui mortificanti compromessi di anime mediocri, di menti pavide. Come se si volesse, con questo, condannare Shakespeare, giudicare Michelangelo, accusare Platone…
È questa la parte più coinvolgente di un perfetto meccanismo teatrale (in due tempi di un’ora e quindici e di un’ora e cinque), sul quale si avanza solo qualche riserva, come il macchiettismo di due personaggi (il padre e l’avvocato), inutile e stridente nel rigore di una mess’in scena che si regge da sola per intelligenza e suggestioni drammaturgiche.
Applausi entusiastici per tutti alla fine.
Si replica fino a domenica 12 novembre.

“Atti osceni I tre processi di Oscar Wilde”, di Moisés Kaufman, traduzione Lucio De Capitani, regia, scene e costumi di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia. Con Giovanni Franzoni (Oscar Wilde), Riccardo Buffonini (Lord Alfred Douglas/Narratore), Ciro Masella (Marchese di Queensberry, avvocato Gill, procuratore Lockwood, Narratore), Nicola Stravalaci (avvocato Carson, Giudice, Narratore), Giuseppe Lanino (avvocato Clarke, narratore), Giusto Cucchiarini (George Bernard Shaw, Giudice, Sidney Mavor, Narratore), Filippo Quezel (Frank Harris, Alfred Wood, Banditore, Narratore), Edoardo Chiabolotti (Wright, Giudice, Charles Parker, Regina Vittoria, Narratore), Ludovico D’agostino (Atkins, Narratore). Al Teatro Elfo Puccini, corso Buenos Aires 33, Milano.

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