“P come Penelope”, per la rassegna “Colpi di scena”, con Paola Fresa. Si parla dell’oggi ma si è riportati al passato

BAGNACAVALLO (RA), sabato 30 settembre ► (di Andrea Bisicchia) In occasione del Festival “COLPI DI SCENA”, diretto da Claudio Casadio e Ruggero Sintoni, già da noi presentato, abbiamo visto: “P COME PENELOPE”, di e con Paola Fresa, in collaborazione con Christian Di Domenico e la supervisione registica di Emiliano Bronzino.
Prima di parlare dello spettacolo, ci è sembrato giusto segnalare l’ottima organizzazione del Festival (molto simile a quelli di una volta, quando, oltre il pubblico, venivano invitati Direttori di teatri, giornalisti, studiosi, attori, registi, operatori). Anche ora, dalle dieci del mattino fino alle undici di sera, invitati e ospiti vengono accompagnati da un teatro all’altro (con pause pranzo, offerte da Accademia Perduta/ Romagna Teatri) per assistere a ben 19 novità e rendersi conto di come si evolva la scena contemporanea, grazie all’apporto di giovani registi e giovani attori.
La prima cosa che colpisce, vedendo “P COME PENELOPE”, è stata quella di assistere a uno spettacolo che, a suo modo, ci riporta al tempo antico, per parlare del nostro presente, tanto che ci siamo chiesti il motivo per cui il passato continua a coinvolgerci e perché non siamo disposti a dimenticare i traumi che abbiamo ereditato, essendo stati incapaci di archiviarli e di dimenticarli. È come dire che il fuoco del mito non si spegne mai, anche perché i suoi codici appartengono al nostro presente e non mostrano nulla di trascendente.
C’è da dire che, negli ultimi due anni, abbiamo assistito più che a riscritture o a rifacimenti, a vere e proprie riattivazioni del mito, ci riferiamo a “Medea per strada”, a “Eracle, l’invisibile”, a “Filottete dimenticato”, realizzati dal Teatro dei Borgia, a “Lemnos”, di Giorgina Pi, ispirato ancora al mito di Filottete, all’”Antigone in Amazzonia” di Milo Rau, solo per citarne alcuni.
È sufficiente, in questi casi, scegliere i nomi del passato, proprio perché sono carichi di storia, oltre che di senso e di memoria. Penelope di Paola Fresa ha in comune, con quella leggendaria di Omero, non il nome, ma soltanto l’iniziale P, per il resto è una donna di oggi, abbandonata dal marito, sempre in giro per il mondo, e con un figlio a carico. La vediamo in scena, in compagnia di quattro sedie che, ad ogni cambio di scena, muove all’interno di una installazione che cambia colore ogni qualvolta P. trasferisce il racconto di sé in quello degli altri, a cominciare dalla cugina Elena che in spiaggia tutti ammiravano per la sua bellezza, oltre che per la sua capacità di nuotare, cosa che a lei non era stato consentito, e che peraltro rifiutava avendo subito da bambina un trauma dovuto al padre che, un giorno, nella vasca da bagno cercò di annegarla. Si trattò di un tentativo di omicidio oppure di un modo che consentisse alla figlia di non avere paura dell’acqua? In verità, durante la giovinezza, anche P. era stata notata in spiaggia proprio mentre era accanto ad Elena e fu scelta come moglie da un Ulisse moderno, non perché fosse bella, ma perché era “giusta”. Dopo due anni di convivenza P. fu abbandonata e condannata a subire un altro trauma, quello dell’attesa.
La vediamo dialogare col proprio passato, rappresentato dal marito assente, e col proprio presente, rappresentato dal figlio, novello Telemaco, a cui il padre invia delle cartoline dei suoi viaggi, grazie alle quali, sappiamo dove si trova.
Le analogie sembrano evidenti, così come lo saranno quelle del figlio quando decide di allontanarsi dalla casa per andare in cerca del padre, una novella Telemachia. Il testo, dove non c’è alcuna parola presa da Omero, si caratterizza per una prosa ritmica che in una delle scene, si trasforma in poesia rimata, un linguaggio particolare a cui P. ricorre per raccontare il dramma di una donna sola e abbandonata, utilizzato anche come mezzo per sfuggire al doppio trauma e riuscire a non aver più paura dell’acqua. Questa liberazione lo spettatore la capirà quando, dopo essersi tolta il vestito, rimarrà con un costume nero, anni Cinquanta, pronta a tuffarsi. Le sarà sufficiente fare un saltino, oltre l’installazione.
Paola Fresa è molto brava nell’utilizzare, con una certa ironia, una recitazione moderna, senza alcuna enfasi, tipica di chi recita un classico, le basta seguire i ritmi degli eventi e farli coincidere con i battiti del cuore, rendendo partecipe un pubblico che non smette di applaudirla.
Lo spettacolo è già richiesto da vari teatri, ed è pronto per una tournée che lo porterà, il prossimo anno, a Milano.