“Parlami di te”: malattia e ritorno alla vita di un uomo di successo. Luchini istrione. In un film leggero fino all’irrealtà

(di Patrizia Pedrazzini) Alain Wapler è un uomo di mezza età che vive solo ed esclusivamente in funzione del lavoro (e della carriera). Instancabile amministratore delegato di una grande casa automobilistica, vedovo, senza amici, non ha tempo per nessuno, né per la figlia, che a malapena sa come viva, né tanto meno per sé. Al grido di “Mi riposerò quando sarò morto”, ignora sprezzante i segnali che il proprio corpo, e il buon senso, gli mandano, finché un giorno la vita decide di presentargli il conto. Un primo malore all’alba, poi un secondo poche ore dopo, quindi un terzo, più violento, mentre è in macchina con l’autista. La corsa all’ospedale, la diagnosi: ictus. Alain si salva, ma ne esce con pesanti difficoltà di memoria e una forma di disfasia che gli impedisce di ordinare in maniera corretta le sillabe delle parole. Sarà costretto a rallentare, ad affidarsi seppur riluttante alle cure di una giovane ortofonista, ad accettare l’aiuto discreto e amorevole della figlia, a riscoprire la fedele compagnia del cane. Ma anche a vedersi tagliato fuori dalla propria azienda, fino a perdere il lavoro. E, di qui, a “recuperarsi”, riflettendo sul valore della vita, dei sentimenti, degli affetti che contano.
Ispirato alla vera storia dell’ex manager di Airbus e Peugeot Citroën Christian Streiff, “Parlami di te” (“Un homme pressé”), terzo lungometraggio del regista francese Hervé Mimran, avrebbe tutte le carte in regola per centrare l’obiettivo di presentare, sotto le vesti della commedia brillante, una vicenda sì drammatica, ma anche intrisa di speranza, positività e ottimismo. A partire dall’ottima performance di Fabrice Luchini, attore noto in Francia per gli spettacoli teatrali nei quali la recitazione ha un ruolo preponderante, che magistralmente gioca con le sillabe e con le parole, mescolando e confondendo significati, strafalcioni, doppi sensi. Da vero mattatore. Solo che la leggerezza che fa da filo conduttore al film diventa presto eccessiva, parallelamente a una trama che si fa, di scena in scena, sempre più “facile” e scontata. Si sorride, si ride anche, ma troppo, e senza troppo senso. La gag della corsa sulla sedia a rotelle, il personaggio dell’infermiere che percorre i corridoi dell’ospedale in skateboard, il siparietto di Alain al bar con il cameriere di colore (“Un the e… rasta!”, “Bella, fratello!”).
E il finale: lui e il cane in viaggio sul Camino di Santiago. Verso Compostela. Che sarebbe anche una degna conclusione, se il pellegrinaggio non somigliasse alla pubblicità di un ente di promozione turistica. Ed è un peccato, perché il tema della solitudine dell’uomo nella società contemporanea, a maggior ragione se consumata in luoghi di lavoro di vetro e cemento, tanto belli quanto freddi ed egoisti, in contrapposizione con gli affetti di tutti i giorni, che proprio nella natura libera e sincera ritrovano senso, bellezza e linfa vitale, sotto sotto si avverte. Ma non emerge.
Irrealistico, leggero fino alla frivolezza, buonista. Fatto salvo l’istrione Luchini, una scommessa mancata.