Pasqual, per non mancare di rispetto a De Vega, ha voluto dedicargli solo una festa. In onore del “Caballero de Olmedo”

collage CaballeroVENEZIA, domenica 2 agosto  ● 
(di Paolo A. Paganini) Si può, in un’ora e un quindici, allestire “El Caballero de Olmedo”, i tre atti in versi di Lope de Vega (il più prolifico e celebre autore del “Siglo de Oro”, inesausto creatore di opere letterarie, sonetti, romanzi, racconti, epopee, poemi, centinaia di commedie, una produzione intensa, tenace, convulsa, quanto la sua vita di frenetico amatore e di non quantificabili figli tra legittimi e naturali)?
Assurdo, un’operazione impossibile.
Nemmeno Lluís Pasqual, che l’ha appunto messa in scena alle Tese dell’Arsenale, in un adattamento da recordman, poco più di un’ora, avrebbe potuto dare un senso di fedeltà integrale all’opera di De Vega. Pasqual lo sapeva benissimo. Con tutta la buona volontà, non si poteva creare un prodotto geneticamente modificato, e poi sostenere che si trattava dell’originale “Caballero de Olmedo”.
E allora ha fatto un’altra cosa, del tutto diversa, e nel contempo rispettosa.
Primo: ha affidato il testo a Francisco Rico, professore, membro della Reale Accademia di Spagna, autore di saggi fondamentali nell’ambito della storia medievale e rinascimentale, soprattutto dei classici del Siglo de Oro. Qui, lo studioso ha fatto una sintesi filologicamente esemplare, rispettosa e affascinante, esaltando la fulgida preziosità dei versi, le straordinarie fioriture barocche letterarie di Lope de Vega, i suoi incredibili petrarchismi, il suo divino senso del bello.
Secondo: dopo l’assunzione nell’empireo della poesia da parte di Lluis Pasqual, il regista spagnolo, già non dimenticato assistente di Strehler, ha inteso organizzare un’incredibile festa teatrale, dedicata a Lope de Vega e ispirata appunto al “Caballero de Olmedo”, in tre brevi scansioni: l’innamoramento, la festa alla fiera di Medina, la morte in un vigliacco agguato.
Pasqual l’ha quindi affidato l’interpretazione a tredici giovani ed eclettici attori di due compagnie, la “Kompanyia Lliure” e la “Joven Compañia Nacional de Teatro Clásico”. Ha quindi arricchito l’azione drammaturgica, come dal testo primigenio, di duelli, spasimi d’amore, vigliacche irriconoscenze, inascoltate voci divine, ombre magie e misteri, agguati mortali, insufflando però una nuova anima celebrativa: un trionfo di canzoni, tammurriate (pardon, si dirà così anche in Spagna?), accenni di taqueador e alate performance di flamenco con chitarre e percussioni… Dove, tuttavia, il nucleo centrale della tragica storia d’amore tra Doña Inés (una tenera Mimsa Riera) e Don Alfonso di Olmedo, è rispettata in una puntigliosa fedeltà, in una tenace aderenza a tutti i canoni della letteratura cavalleresca spagnola, dove per amore si vive o si muore, senza mezze misure.
E qui, con i tredici giovani attori sempre in scena, come in una collettiva liturgia religiosa, Pasqual ha celebrato il rito della giovinezza e della vita, con pudore e rispetto, ma anche con rabbia e disperazione, attraverso le inesorabili leggi del destino, che con una mano ti offre la coppa della felicità, con l’altra l’artiglio feroce del desengaño e della morte (termine traducibile in italiano solo per approssimazione, come delusione, o disinganno, ma in Spagna è un’altra cosa, possiede una ben altra forza tragica: di desengaño si muore).
Della bella entusiasmante compagnia, almeno citeremo la spigliata (anche nel ruolo di intrattenitrice) Rosa Maria Sardà, nel ruolo di Fabia, il personaggio femminile che Lope de Vega ha felicemente ricalcato, come sorella d’intrighi, dalla Celestina di Fernando de Rojas; e poi Javier Beltrán (il tragico e sfortunato Don Alonso); Pol López (il fedele servo Tello); Agus Ruiz (il perfido Don Rodrigo). Ma bene, in ogni azione di corale coinvolgimento, anche tutti gli altri. Applausi da grande serata.