Patriottico senza retorica, il film di Spielberg è un gioiellino. Peccato che sia uscito in contemporanea con Star Wars

ponte spie(di Marisa Marzelli) Se quasi tutti non si fossero concentrati solo sul fenomeno delle Feste, il nuovo episodio di Star Wars, si sarebbero accorti di quel gioiellino de Il ponte delle spie, diretto da Steven Spielberg e uscito in contemporanea con il ciclone stellare. Spielberg torna con un film tratto da una storia vera, di impianto classico e ottima ambientazione. Magari ha alcuni difetti: all’inizio fatica un po’ a coinvolgere lo spettatore e infila qualche sottofinale di troppo, ma ricostruisce benissimo un mondo, quello dello spionaggio (reale) al tempo della guerra fredda e quello (derivato) delle spy-stories cinematografiche. Qui siamo più dalle parti di Le Carrè che di Ian Fleming.
Come si sa, il regista di E.T. ed Indiana Jones alterna pellicole d’intrattenimento spesso travolgente ad altre in cui affronta la Storia. Come Schindler’s List, Monaco, Salvate il soldato Ryan, Lincoln. Su questo versante il suo cinema è patriottico senza diventare insopportabilmente retorico. Stavolta si affida ad una vicenda i cui contorni risultano noti al pubblico meno giovane, almeno per la parte concernente l’abbattimento da parte dei sovietici dell’aereo-spia americano U-2 (pare che la band degli U-2 abbia preso il nome da quell’episodio, tanto era conosciuto in quegli anni). La sceneggiatura è dello scrittore inglese Matt Charman e dei fratelli Coen, abili nel ricreare le atmosfere d’epoca senza complicare troppo il plot.
Il film inizia nel 1957, quando gli americani arrestano a New York la spia russa Rudolf Abel (l’attore inglese Mark Rylance). La scena iniziale è già programmatica di un significato più ampio. Abel sta dipingendo un quadro, poi l’inquadratura si allarga e vediamo che sta eseguendo un autoritratto, guardandosi in uno specchio. Ciò che siamo, come ci vediamo e come ci vedono gli altri è il mondo delle spie. Sottoposto a processo, Abel (che non rivelerà mai i suoi segreti) ha bisogno di un avvocato difensore, più che altro proforma, per dimostrare ai russi che la giustizia americana è equa. Viene scelto l’avvocato James Donovan (Tom Hanks), che si è sempre occupato di controversie assicurative (salvo aver avuto un ruolo nel processo di Norimberga). Ma lui non intende svolgere una difesa di facciata, vuole davvero evitare la pena capitale al suo cliente, che ritiene un onesto servitore del proprio Paese. L’avvocato, pur alienandosi famiglia, autorità e opinione pubblica (tutti convinti che la spia vada condannata a morte) ottiene una lunga incarcerazione. Ma è solo l’inizio, perché tre anni dopo avviene l’abbattimento in Unione Sovietica dell’aereo-spia statunitense U-2, il pilota militare Gary Powers finisce nelle mani dei russi. Si prospetta uno scambio tra le due spie. Per le trattative viene richiamato il personaggio interpretato da Tom Hanks. L’avvocato vola a Berlino.
Le cose però si complicano, perché nel frattempo a Berlino Est, mentre si sta costruendo il Muro, viene arrestato dalla DDR uno studente americano. Gli Stati in trattativa diventano così tre: gli Usa, la Germania dell’Est e la Russia. Questa è la parte migliore del film, con il negoziatore americano intenzionato a riportare a casa il pilota e lo studente, mentre ai politici americani interessa solo il pilota e i russi non vedono di buon occhio che la Repubblica Democratica Tedesca entri nello scambio. Nervi d’acciaio, l’avvocato Tom Hanks non molla, vuole i due americani per il russo e alla fine li otterrà, muovendosi in un sottobosco dove nessuno è ciò che dice di essere, tra avvocati d’affari e agenti del KGB che si spacciano per addetti diplomatici. Facendo la spola tra Berlino Est e Ovest, lo sguardo di Hanks, e con lui quello dello spettatore, avrà modo di vedere realtà di cui allora la stampa parlava di frequente, come i tentativi di fuga da Berlino Est scalando il muro, sotto le raffiche di mitra dei Vopos. Infine, scambio dei prigionieri all’alba sul Ponte di Glienicke, il famigerato Ponte delle Spie, reso celebre da tante storie di spionaggio. Una didascalia finale informa sul destino dei vari personaggi, aggiungendo che l’avvocato Donovan riuscì in seguito a ripetere “in grande” la sua mediazione: trattando la liberazione di un migliaio di americani detenuti a Cuba dopo la Baia dei Porci, ne riportò in patria 9.000.
Buon americano nel senso classico di persona ragionevole e tenace, eroe normale (niente affatto un supereroe, gli rubano anche il cappotto e si becca un raffreddore) al quale Tom Hanks sa dare una toccante umanità, l’avvocato Donovan incarna quei valori di giustizia e democrazia che nei decenni passati ci hanno fatto amare e rispettare l’America. In questo senso Spielberg confeziona anche un film politico di stringente attualità. Parlando di un ieri non troppo lontano, ricorda che – sebbene la generale instabilità attuale non sia più focalizzata sul pericolo rosso e la guerra fredda ma sul terrorismo – i valori della Costituzione (il manuale delle regole, la definisce il personaggio) non possono essere disattesi e non vanno sacrificati la democrazia e i diritti individuali in nome della sicurezza.