MILANO, giovedì 7 maggio ♦
(di Paolo A. Paganini) Esattamente dieci anni fa, era di maggio, Gabriele Lavia e Mariangela Melato misero in scena al Piccolo Teatro Strehler “Chi ha paura di Virginia Woolf?”. Già allora ci si era chiesti se avesse ancora senso rappresentare un dramma scritto dall’inquieto e prolifico Edward Albee addirittura nel 1962. Poi fu lanciato, nel ’66, sugli schermi mondiali dai due attori più litigiosi di Hollywood, Elizabeth Taylor e Richard Burton, che non dovettero fare troppa fatica a interpretare la parte di due vecchi coniugi semialcolizzati e in preda a un perenne gioco del massacro.
Anche la coppia Lavia/Melato non scherzava, ma questa volta solo sul palcoscenico. Dopo pochi minuti, si capì subito che non era affatto un testo con la muffa. Sì, emergeva una situazione socio-culturale di uno spregiudicato fariseismo americano un po’ inamidato, ma si perdeva nel contorno del dramma, perché al centro del ring c’erano i nlstri problemi: l’incapacità di amare, di tollerarsi, di capirsi, c’era la tragica costatazione del fallimento occidentale nel campo dei valori morali e intellettuali, c’era la malattia dell’anima collettiva con tutti i suoi tranquillanti, c’era il perenne fondo del bicchiere in cui prosciugare le lacrime della disperazione, dell’incapacità di vivere, del ferirsi continuamente nel livore di una rabbia insanabile, e c’era la comune necessità di continuare a perpetuare un quotidiano massacro per avere l’illusione di essere ancora vivi. Quando invece tutto era già morto. O mai nato.
Il dramma è conosciuto. Lo ricordiamo in due parole. Un accidioso professore di storia e l’isterica figlia del rettore dell’università, sposata da più di vent’anni, sopravvivono alla loro insofferenza nella speranza del ritorno d’un figlio, che mai arriverà, per il semplice fatto che non è mai nato. Ma la finzione aiuta a sopportarsi oltre i limiti della stessa sopportazione. In una serata dall’alto tasso alcolico, ricevono la visita di due giovani sposi, recente acquisto dell’università, che non hanno meno problemi dei più anziani, soprattutto perché la giovane donna ha frequenti crisi di vomiti gravidici per fasulle gravidanze isteriche che le gonfiano e sgonfiano la pancia… Le due sconosciute coppie, in una notte di tregenda, finiranno con lo sbranarsi. Una furibonda gara a quattro a chi più colpisce duro, con offese terribili, con il rinfacciarsi senza pudore le più intime debolezze: torti frustrazioni nevrosi isterie rimpianti tradimenti delusioni… Nel carrello di questo supermercato dell’orrore metteteci insomma tutti i possibili rigurgiti, tutti i veleni dell’umana perfidia. Basta. Alla fine, tutti si ritireranno nel loro guscio di infelicità: gli anziani coniugi con il loro ultimo bicchiere di whiskey, i due più giovani già sapendo come sarà negli anni a venire il loro destino matrimoniale…
In tutto questo cosa c’entra la “paura di Virginia Woolf”? Niente. È solo il ritornello d’una canzoncina degli Anni Trenta, che giocava sull’equivoco del nome della scrittrice Woolf con il nome del lupo, wolf. Come dire: chi ha paura del lupo cattivo. La pertinenza con la canzoncina sta nella ragione che qui tutti dovrebbero aver paura di se stessi, dell’orrore della loro vita, del fallimento delle loro esistenze, della fragilità delle loro anime.
Ma venendo allo spettacolo, in scena ora al Teatro Menotti (traduzione dell’indimenticato amico Ettore Capriolo), nell’interpretazione di Milvia Marigliano e Arturo Cirillo (la coppia più anziana), e di Valentina Picello e Edoardo Ribatto (i più giovani) si assiste, in un’ora e quaranta senza intervallo, a un match che si svolge alla pari e con esiti devastanti per tutti: Marigliano è una Erinni scatenata, Cirillo un odioso professore da sberle; la Picello un vivente capolavoro da trattato di psichiatria, Ribatto un prestante e un po’ ottuso stallone di belle speranze. Semplicemente eccezionali. Qualche sbavatura registica dello stesso Arturo Cirillo sarà facilmente rimediabile. Qualche altra, no. Non puoi cambiare un teatro che ha tragiche isole di sordità. Ma anche qui qualcosa si può fare. Lasciare il palcoscenico spoglio nella sua vastità è un errore di acustica. Basterebbe occupare il palco con delle quinte riduttive che lo restringessero, costringendo le parole a risuonare con maggiore intelligibilità. Bah, non siamo dei tecnici. Eppoi, il finale con lo scivolamento tellurico del palcoscenico, simbolo del crollo di una civiltà, era proprio necessario? Io dico di no. Ma già con Lavia abbiamo avuto molte perplessità. Buona e cordiale accettazione del pubblico.
“Chi ha paura di Virgina Woolf?”, di Edward Albee. Regia di Arturo Cirillo. Al Teatro Menotti, Via Ciro Menotti 11, Milano. Repliche fino a domenica 24.