(di Andrea Bisicchia) Il libro di Ciro Borrelli: “Peppino De Filippo. Tra palcoscenico e cinepresa”, Kairòs Editore, non ha la pretesa di un saggio accademico, benché sia il risultato di una lunga ricerca, evidenziata da un apparato bibliografico alquanto aggiornato, da scambi epistolari, recensioni, interviste ad attori che hanno collaborato con lui, testimonianze e conoscenze dirette. Ne viene fuori, in alcuni casi, un ritratto inedito di Peppino, quello di un attore in cerca di una sua specificità che possa differenziarlo, soprattutto, da Eduardo.
Borrelli utilizza la cronologia biografica come metodo di ricerca, sottolineando le difficoltà che, insieme ai fratelli, Peppino dovette superare, fino alla nascita del Teatro umoristico (1931) e a quella dell’avventura personale, avvenuta dopo il sodalizio con Lidia Maresca e con Umberto Curcio, con cui firma uno dei successi più straordinari “ I casi sono due”. Borrelli si attarda, in particolar modo, sulle incomprensioni tra Eduardo e Peppino, nate, a suo avviso, per colpa involontaria di Pirandello, dopo il successo di Liolà, con lui protagonista, a cui seguì quello di Eduardo, con Il berretto a sonagli.
Liolà, che era stato il cavallo di battaglia di Angelo Musco, lo divenne anche per Peppino, testimonianza perfetta di una tipologia del comico messa in atto da questi due grandi attori, una comicità costruita su gag, su improvvisazioni, sull’intreccio, più che sui caratteri.
Perché Pirandello fu causa dei malintesi tra i due fratelli? Perché Peppino non sopportava, come Musco, i lunghi monologhi scritti, dall’autore agrigentino, per Ciampa. Peppino che, per esigenza scenica, nella parte del commissario Spanò, era costretto a non intervenire neanche in controscene, non poteva fare alcun movimento dal quale il pubblico avrebbe potuto trarre divertimento che avrebbe disturbato Eduardo, pronto a ridere persino ad un batter di ciglia di Peppino.
Eduardo cominciò ad accusarlo di “indisciplina scenica” e, pertanto, di poco scrupolo artistico.
Il povero Peppino fu costretto a fare la statua in scena, perché ogni suo movimento impercettibile generava ilarità. Basterebbe questo episodio per comprendere la differenza tra l’umorismo di Eduardo e la comicità farsesca di Peppino.
Sulla rottura tra i due fratelli esiste ormai una letteratura, comprovata dalle poche lettere che ne sono la drammatica testimonianza. Sembra che la causa dirompente fosse dovuta alla pigrizia, alla svogliatezza di Peppino, rimarcata durante le prove, come accadde, al Teatro Diana nel 1944, quando dopo che Eduardo lo aveva apostrofato, inveendo contro di lui, Peppino rispose “Du-ce Du-ce”, a cui seguì una domanda: “Eduà, cosa faresti tu se io ti trattassi come tu tratti me?”. La risposta non si fece attendere: “Me ne andrei”.
Il volume di Borrelli si legge come il romanzo di una vita. È diviso in sette parti che, partendo dalla biografia, arrivano al sodalizio tra i tre De Filippo, alla lunga collaborazione con Totò, all’esame di cinque pellicole, meno note, che vedono Peppino protagonista assoluto. Non poteva mancare la parte dedicata a Pappagone che, per lungo tempo, deliziò grandi e piccini.
Ciro Borrelli, Peppino De Filippo. Tra palcoscenico e cinepresa. Kairòs Edizioni 2017; pp 250, € 18.