Per finire, in scena anche lo stesso Thomasset. Da un’altra parte, una lavatrice tenta di smacchiare umane sporcizie

VENEZIA, mercoledì 25 luglio ► (di Paolo A. Paganini) Anche Vincent Thomasset, del quale abbiamo visto “Lettres de non-motivation”, “Ensemble Ensemble”, ed ora “Medail Décor”, come i personaggi di cui parla e delle situazioni in cui si trovano, sembra a sua volta essere divorato dall’ansia di chiarirsi di fronte alla propria identità in crisi, in rapporto con se stesso, con la natura, con gli oggetti che lo circondano, con tutte quelle persone, sempre più sfumate, che scorrono davanti allo sfuocato obbiettivo del tempo.
In “Médail Décor” parla dunque di sé, ma con l’apparente distacco d’un continuo giocare con i tempi grammaticali, il passato remoto e soprattutto il presente storico. Ma va anche oltre il coinvolgimento personale, che sembra essere solo descrittivo, o programmatico.
Per esempio: “Comincerei dai titoli… I titoli dei libri, i titoli delle persone, quelli che abbiamo letto, e quelli che abbiamo incontrato. Andremo anche alla ricerca di figure del passato, le persone che abbiamo incontrato. Avremo ovviamente la possibilità di sederci, parlare, scambiarci diverse cose e argomenti… Abbiamo preso la decisione di parlare di quelli che ci circondano… Parliamo molto in fretta, risparmiamo tempo. Risparmiando tempo, aumentiamo il volume dei dati. I dati si afflosciano, i dischi scompaiono, i libri ingialliscono, prendono polvere.”
E in quel suo “parliamo in fretta” c’è un’ansia molto prossima alla nevrosi. Diventa auto-confessione della fatica di essere. “Parlo molto velocemente e mi muovo molto… La struttura caotica e gli errori di sintassi, inerenti a questo tipo di esercizio sono stati lasciati tali e quali…”, così come erano stati realizzati in una sua improvvisata registrazione. E perché così è la vita.
Ma la sua definizione di “fretta” è ottimistica. Parla a mitraglia, ai limiti dello scioglilingua. Un’agitazione molto prossima al delirio. Una follia di parole, una cascata di fonemi, un’ubriacatura di lemmi. Eppure, di una tenerezza e di una poesia che fan perfino male talmente sono intense e commosse. Come gridassero aiuto e comprensione.
È in scena, Thomasset, in una delle sue rare performance di partecipazione personale. Legge e recita, insieme con il fedele attore, mimo, ballerino e amico, Lorenzo De Angelis, una presenza come evocazione del proprio io, che in un’edizione precedente di questo “Médail” proponeva, tra le altre scene, un corale numero mimico di equitazione, come arte marziale, per addestrare i cavalli alla battaglia. Qui è ancora ripreso solo da Lorenzo. Una prova “equina” di esaltante bellezza, tra costruzioni di torri e ostacoli con incastri di cassette-lego, che via via vengono a crollare non per imperizia ma per drammatica stanchezza. Fatale ed emblematico simbolismo di fallimenti esistenziali. Ma c’è chi ride.
Come ultimo spettacolo di Thomasset a Venezia non poteva terminare con più irridente, commossa e sofferta partecipazione, cioè come autobiografia del proprio percorso artistico di autore, regista, attore e coreografo. Tormento ed estasi, per dirla con il romanzo di Irving Stone su Michelangelo Buonarroti. Già. Ma questo vuol dire scegliere la strada dell’arte e della poesia, tormento ed estasi, gioia e dolore.
In tempi bui, un raggio di speranza e di consolazione?
No repliche.

PERFORMANCE DELLA LAVATRICE

Seduti tutti per terra, a guardare per mezz’ora una lavatrice che fa il bucato. Ma siamo diventati tutti cretini?
E invece no. Lo spettacolo-performance (?) della lavatrice primadonna non è così scemo, come pensavamo. Anzi, ha una sua tragica morale, una conclusione mozzafiato.
Gli indumenti sporchi, messi a lavare, riveleranno un lerciume umano, che nessuna lavatrice potrà mai ripulire. Non esiste una candeggina per la cattiva coscienza, per le ingiustizie, per la crudeltà. E la lavatrice va e va. E rivela suoni, e sferragliare di macchine, e lamenti, e giochi di bambini, e incombenti rumori di tuono, spaventose esplosioni di bombe, e grida e invocazioni.
E intanto il performer-tecnico-operatore  Giuseppe Stellato pittura una lunga striscia rossa. Rosso sangue. Come commento d’un racconto di morte. Narrato dalla stessa lavatrice, con quei suoni di terrore e di dolore, urlati dagli indumenti nella centrifuga, come una tortura di umane testimonianze, di tragiche sofferenze. Infine, il programma della lavatrice termina il proprio ciclo in un’implosione che la manda in mille pezzi. E dall’Oblò (è anche il titolo della breve performance) escono quei piccoli panni ancora sporchi di bimbi morti o trucidati, che inutilmente hanno implorato, gridando, la carezza di chi non c’era più.
Repliche per tutto il tempo della Biennale, fino al 4 agosto.