MILANO, giovedì 28 febbraio ► (di Paolo A. Paganini) Impotente e disperato, di fronte alla pagina bianca dell’ultimo atto dei suoi incompiuti “Giganti della montagna”, in un parossismo inappagato sui perché della vita e della morte, e su come poter concludere le magie di Cotrone e dei suoi Scalognati, e come far calare ilsipario sulla Compagnia di attori della Contessa Ilse, e come togliere l’anima ai suoi Fantocci: non è difficile immaginare l’angoscia di Pirandello nel suo penultimo giorno di vita. La mente sconvolta dalla paura dell’Oltre, eppure in un delirio di fantasie, di immagini, di fantasmi, di lampi e di apparizioni, di creature sbucate da un sogno o da un incubo che solo Pirandello vedeva. Ma Cotrone non era il Prospero di Shakesepare, che, spezzata la sua bacchetta di Mago, metteva fine ai suoi incantamenti e alla stessa vita di scrittore, lasciando la sua Isola incantata nella mani di Ariel e di Calibano.
No, Pirandello, fino all’ultimo – c’è la testimonianza del figlio sulle sue ultime ore di vita – continuava a vaneggiare su come mettere fine al suo capolavoro, a quel maledetto e sfuggevole terzo atto, delirando febbricitante su olivi saraceni e su Giganti inabissati nella banalità della vita quotidiana.
Eppure, anche così, “I Giganti della montagna”, con l’inappagato mistero d’una impossibile conclusione di un mito incompiuto, in quel suo luogo immaginario, dove tutto è possibile perché niente è possibile, “tra la favola e la realtà”, rimane il capolavoro di Pirandello, la sua eredità spirituale. Sono le sue ultime volontà di come dovesse essere il teatro nel suo stato d’incontaminata purezza. Dove potesse finalmente rappresentare, teatro nel teatro, “La favola del figlio scambiato”. E poi poter morire. In pace con se stesso e con le sue fantasmiche allucinazioni, ritrovando la felice ingenuità dei bambini, “dischiudendosi al calore, alla tenerezza, alla fantasia, alle apparizioni, insomma al teatro-poesia… con la Scalogna vista come teatro preesistente, in cui confluisce un bestiario strano di umantà rifiutata, e allontanata dopo un rifiuto…”. Parole di Strehler, che di magie s’intendeva, specie nelle sue gloriose frequentazioni dei “Giganti” fin dal 1947. Anche se poi, nel ’78 al Lirico,dopo “il teatro degli inganni e delle apparizioni”, sembrerà invenare l’altro mago, il Prospero della “Tempesta”, di una profonda malinconia e sfiducia, come se il mago non vedesse l’ora di spezzare la sua bacchetta incantata.
Ma Gabriele Lavia non è Strehler. Diamo quindi a Lavia quel che è di Lavia. Egli ama la speculazione filosofica più della poesia. Ama l’azione più che non la meditata meditazione della malinconia. Ama stupire, materializzando la sua prodigiosa creatività di regista e protagonista in una sanguigna e passionale fisicità. E più che non la magia, sembra prediligere i giochi di prestigio. Non c’è niente di disdicevole. Il teatro ama e supporta ogni possibile intrusione della fantasia e della creatività, pur su un piano, qui, di chiassosa rappresentazione.
Al Piccolo Teatro Strehler, dove “I Giganti della montagna” hanno debuttato – e stupito – in un immaginifico allestimento di Lavia (due tempi, di un’ora e dieci e di quarantacinque minuti), che già si apre sulla superba e maestosa scena d’un fatiscente teatro dai gloriosi stucchi e regali palchetti. Tutto distrutto e diventato antro di apparizioni e di suoni misterici ed inquietanti. La scena viene quindi invasa dal popolo degli Scalognati, chiassosi e policromi come ideali maschere della commedia dell’arte. Ma son subito terrorizzati dallo sconosciuto carretto dei comici, che si portano addosso le loro miserie d’infelicità, la loro disperazione di attori falliti. Saranno accolti, fra gli Scalognati, nel loro magico mondo dei sogni e della fantasia.
Qui comincia l’affascinante sfida di Pirandello (e di Lavia) sul discrimine realtà e fantasia, sogno e veglia, bene e male, teatro e vita, spirito e materia. E abbasso la ragione, proclamerà Cotrone. E svelerà il suo mistero. Il teatrante dà vita a dei fantasmi fuori di sé. Il segreto della magia è dar vita con la fantasia ai fantasmi che ciascuno ha dentro di sé. E allora tutto diventa possibile, le apparizioni, le tempeste, la vita insomma, senza più nessun legame con la realtà, con le sue menzognere illusioni, senza più alcun bisogno dei piaceri della carne.
Per tutto ciò, ci sembra deviante la regia di Lavia, che indossa i panni d’un fanciullesco e appassionato Cotrone. Ma la finezza della confusa, ma affascinante, speculazione pirandelliana viene qui sopraffatta da una ridondanza di suoni, di movimenti scenici, di trucchi (di stupefacente bellezza la vita dei Fantocci). Ma, ecco, manca la più sottile magia della poesia, della malinconia. Questo ripiegato mondo di falliti, di “rifugiati” nella villa degli Scalognati, non dà quello struggimento inquieto e delirante, che suggeriva Pirandello.
Qui, con Lavia, “I Giganti della montagna” son diventati giustamente rispettosi della loro misteriosa incompiutezza.
È giusto pertanto continuare a ignorare la ricostruzione di quell’ultimo atto mancante, che il figlio di Pirandello, Stefano, ha invece integrato interpretando le ultime confuse parole del padre. Secondo la sua ricostruzione, manca la recita finale della “Favola del figlio cambiato” che la Compagnia di attori rappresentava finalmente nel paese dei Giganti, davanti a un popolo becero e ignorante. E manca dunque la fine della Contessa Ilse, fischiata, insultata e uccisa dalla bestialità di una gente che non poteva capire la poesia. E con Ilse muore la Poesia. E a noi piace ricordarlo.
Così, la violenta razza dei Giganti può continuare a dominare la terra.
Ventitré attori in scena. Bravissimi. Un occhio particolare all’intensa Contessa Ilse.
Non possiamo parlare di tutti. Rimandiamo all’elenco qui sotto, con un particolare plauso per tutti.
E con la raccomandazione di non perdere questo originale allestimento di Lavia, che, di per sé – finezze escluse – è uno straordinario e trionfale godimento. Degli occhi e dell’intelligenza.
“I Giganti della Montagna” di Luigi Pirandello, regia Gabriele Lavia, scene Alessandro Camera, costumi Andrea Viotti, musiche Antonio Di Pofi, luci Michelangelo Vitullo, maschere Elena Bianchini, coreografie Adriana Borriello. Con Gabriele Lavia. La Compagnia della Contessa: Federica Di Martino, Clemente Pernarella, Giovanna Guida, Mauro Mandolini, Lorenzo Terenzi, Gianni De Lellis, Federico Le Pera, Luca Massaro. Gli Scalognati: Nellina Laganà, Ludovica Apollonj Ghetti, Michele Demaria, Daniele Biagini, Marika Pugliatti, Beatrice Ceccherini. I Fantocci (personaggi della “Favola del figlio cambiato”): Luca Pedron, Laura Pinato,Francesco Grossi, Davide Diamanti, Debora Iannotta, Sara Pallini, Roberta Catanese, Eleonora Tiberia. Al Piccolo Teatro Strehler. Repliche fino a domenica 10 marzo.