Perché Shakespeare non voleva pubblicare i suoi sonetti? Forse ce n’è uno, nascosto, con la chiave del mistero

(di Andrea Bisicchia) Harold Bloom, autore del “Canone occidentale”, ritenne Shakespeare e Dante i due più eccelsi inventori di forme, di modelli, di regole, tali da costituire un “Canone”. Al contrario, il “Codice” è più legato ai “generi” ed è il prodotto di competenze disciplinari che possono essere anche di tipo trasversale. Elvira Siringo ha optato per quest’ultimo, scrivendo: “Codice Shakespeare”, nel quale le sue competenze spaziano dal mondo poetico a quello storico, da quello linguistico a quello biografico, grazie alle quali, indirizza il suo lavoro di ricerca verso un ipotetico sonetto, il 155, non presente nella raccolta pubblicata nel 1609 (anno della peste a Londra) dall’editore Thomas Thorpe, ma non licenziata dall’autore che sembra si mostrasse contrario alla pubblicazione.
In molti si sono chiesti il motivo di tale contrarietà, qualcuno l’ha individuata nella passione omoerotica che trasparirebbe lungo i 126 sonetti che precedono quelli dedicati alla dama nera, detta così per i suoi occhi “neri come corvi”, che sembrano “vestire il lutto”.
Come è noto, i Sonetti sono preceduti da una dedica, firmata T. T. (Thomas Thorpe), ritenuta anch’essa ambigua, che in molti hanno cercato di decodificare. A cosa è dovuto un simile accanimento nei confronti di una dedica che si caratterizza per una particolare disposizione delle lettere e della punteggiatura, oltre che per una certa libertà compositiva che sembra rimandare a Marinetti e ai poeti del Futurismo?
A prima vista, il destinatario della dedica sembra essere William Shakespeare, detto Will. Il problema si infittisce quando, nella terza riga, si legge a “Master W. H.”, tanto da chiederci cosa volesse dire quella H.
È forse da ricondurre a un ignoto e misterioso personaggio, unico ispiratore del Canzoniere? Oppure si trattava di colui che aveva procurato il materiale per l’editore, il quale si apprestava a ringraziarlo? Pur intrattenendosi su questo quesito, Elvira Siringo avanza l’ipotesi che l’edizione del 1609 contenga un sonetto nascosto, il 155 appunto, e che il codice di decifrazione sia da ricercare proprio in questa dedica. La Siringo sostiene anche che “il curatore avrebbe potuto smembrare il sonetto da nascondere, usandone i singoli versi in altri quattordici diversi contesti e avrebbe indicato la posizione fornendoci quattordici coppie di numeri”.
Come si può intuire, il problema non è di carattere filologico, trattandosi di una ipotesi fantasiosa che andrebbe ulteriormente dimostrata. Il volume non si raccomanda solo per questo, dato che contiene la spiegazione dei “Sonetti impresentabili” che erano stati esclusi dall’edizione curata da Ben Benson (1640), il quale aveva persino modificato il frontespizio. Il motivo dell’omissione è ancora da ricercare nel fatto che Shakespeare avesse promesso l’immortalità, attraverso la poesia, all’“amico” morto.
Personalmente sono convinto che l’amico o l’amica in nero (Emilia Bassano?) siano funzioni retoriche che il poeta utilizza per raccontare liberamente le sue trame d’amore e che abbiano a che fare con la rappresentazione, basterebbe leggere il sonetto 110: “Ho creato qua e là\ e fatto di me stesso un buffone di teatro” o ancora il 133, dove il poeta parla dell’“altro mio io”, quello che utilizza per creare un dialogo e, ancora, il 135 dove scrive: “Ogni donna ha quel che vuole, tu hai il tuo Will e un Will ancora e un Will anche di troppo” a dimostrazione di come il poeta sia stato capace di moltiplicarsi.
La Siringo si interessa anche degli alter ego di Shakespeare, da John Dee a John Florio, a Emilia Bassano, tesi sostenuta per quest’ultima da Giovanni Cecchin, nel volume: “Shakespeare, Emilia Bassano e Altri. Un quadro di vita elisabettiano. I Sonetti”, edito da Canova nel 1990, nel quale l’autore parteggia per la Bassano, perché d’origine veneta come lui.

Elvira Siringo, “Codice Shakespeare”, Edizione Independent Publishing 2015, pp 154, € 9.