Performance: quando era una ragnatela di sperimentazioni prima di diventare evento teatrale. Rileggiamo Schechner

copertina(di Andrea Bisicchia) Ho scelto “La teoria della performance, 1970-1985”, di Richard Schechner, edito da Bulzoni nel 1984, per proporre, ancora una volta, la “seconda lettura” come metodo critico, in un momento in cui gli osservatori denunciano la crisi della tradizione mimetico-rappresentativa a vantaggio della performatività, tesa alla ricerca di situazioni estreme, e della complementarietà della arti con la materialità del gesto. Chi come me ha vissuto le esperienze della rivoluzione teatrale degli anni Settanta, che è stato testimone di come lo spazio teatrale sia stato considerato un luogo permanente di sperimentazione, vive le esperienze performative di oggi come un ricalco meno coinvolgente di quello che Schechner andava teorizzando, specie quando sosteneva la necessità di confrontarsi col teatro orientale e di creare una dialettica tra passato e presente.
Indossando le vesti dell’antropologo, egli ebbe modo di conoscere il teatro indonesiano, quello del No giapponese, la danza balinese e di indagare l’intertestualità che stava a base dei loro spettacoli, oltre che l’uso dello spazio scenico, dentro il quale, entravano in relazione rapporti sociali e rapporti culturali, danza e recitazione, dove si consumavano quei “ riti di passaggio” studiati da Turner, che Schechner definiva azioni virtuali, convinto che “Ciò che è virtuale in azione, in performance, interi mondi altrimenti ignorati ci si schiudono davanti”. Nel contesto performativo era possibile intrecciare una ragnatela di associazioni che conteneva di tutto per essere, successivamente, convertito in evento teatrale. Per chi predilige la performance, non esistono azioni codificate perché, in molte occasioni, sono prodotte dalla casualità, percepita erroneamente come teoria estetica.
È chiaro che a simili situazioni si è arrivati dopo l’enorme sviluppo delle arti visive e dell’apparato tecnologico. Nel terzo millennio sembra impossibile che si possa fare teatro senza video-proiezioni, senza l’uso smoderato e, spesso, sconsiderato, della tecnologia. Il teatro performativo storico, quello del Living, di Cage, di Barba, di Brook, di Kantor, di Wilson, sembra essere stato riproposto con accorgimenti diversi da Kentrige, dalla Abramovic, e dai gruppi nati al Franco Parenti negli anni Novanta: Masque Teatro, Raffaello Sanzio, Motus, Teatro Clandestino, tutti affascinati dalla multidisciplinarietà, dalle videoproiezioni, dall’integrazione tra cinema, teatro, circo, musica, creando delle forme ibride complesse e non sempre accessibili.
Ho seguito questi gruppi con la stessa curiosità e ansia di quelli del ’68, analizzando e giustificando il loro modo di rapportarsi col teatro. Con l’ultima generazione, ho assistito a qualcosa che mi ha lasciato almeno perplesso, per l’uso di una smoderata ibridazione che vede il corpo protagonista in modo assoluto. Cosa manca a questa generazione? Innanzitutto una teoria che la giustifichi, oltre che una formazione professionale, dato che essa stessa si proclama autodidatta e che dice di fondare la sua ricerca sull’istinto e sulla spontaneità. È una generazione che porta in scena il malcontento, che utilizza un linguaggio quotidiano, a cui corrisponde una fisicità sgraziata. Sembra che la stessa cultura sia incompatibile con le sue scelte di vita e artistiche. Consiglio loro di leggere il testo di Schechner e, sempre dello stesso autore, “La cavità teatrale” (De Donato Editore, 1968).

Richard Schechner, “La teoria della performance, 1970-1983”, a cura di Valentina Valentini, Bulzoni Editore 1984, pp 315.