“Peter Grimes”. Obbligati a partecipare a quanto accade. Grimes? Innocente o colpevole? Mah. Un successo trionfale

MILANO, mercoledì 19 ottobre
(di Carla Maria Casanova)
“Peter Grimes” alla Scala. Regia di Robert Carsen
. Carsen? Si va. Si corre. Sarà, comunque sia, uno spettacolo da vedere. A parte il fatto che Peter Grimes, di Benjamin Britten, è un’opera meravigliosa. A suggerirgliela fu la lettura del poema The Borough (Il villaggio, 1810) di George Crabbe, ambientato sulla costa del Suffolk. Qui Britten era nato e cresciuto e si sa quanto fosse attaccato alla sua terra. Iniziò a comporre la sua nuova opera durante la Seconda guerra mondiale, negli Stati Uniti dove era espatriato quale obiettore di coscienza, terminandola, non ancora trentenne, all’inizio del 1945. Protagonista sarebbe stato, come (quasi) sempre, il tenore Peter Pears, suo interprete di elezione e compagno di vita. Commissionata da Serge Koussevitzky per l’omonima Fondazione, fu dedicata alla moglie del Maestro, Natalie.
È opera complessa e sofferta, con una storia non del tutto risolta. Nel pubblico, e nello stesso Britten, rimane il dubbio se Peter Grimes sia colpevole oppure no. Nel testo originale di Crabbe, da parte sua uomo triste e contorto, con una infanzia povera e infelice, il dubbio non c’è: Grimes, dalla psiche malata e rifiutato dagli abitanti del villaggio dove si trova a sbarcare, è un losco individuo resosi responsabile dell’uccisione di tre mozzi. Ma non così in Britten. L’opera si apre con l’inchiesta preliminare sulla morte sospetta di un giovane apprendista di Grimes, e l’inchiesta si conclude con un verdetto di assoluzione, sia pur per insufficienza di prove. Infine Peter Pears che creò il personaggio, con il suo carisma interpretativo ne aveva fatto un essere tormentato vittima delle proprie debolezze e dell’incomprensione del contesto sociale gretto e ipocrita nel quale viene a trovarsi. Carsen interviene con la propria sensibilità e punta il dito contro l’emarginazione del “diverso” (vedi omosessuale) vittima di grandi vessazioni fino a qualche tempo fa (adesso il provocatorio sbandieramento dell’orgoglio gay ha quasi ribaltato la situazione). Insomma, gay o non gay, assassino o non assassino, Peter Grimes, che comunque è un uomo di estrema violenza, alla fine impazzisce e se la vede così brutta da accogliere il suggerimento di portare la sua barca in alto mare ed affondarla. Lo fa, con lui sopra. Il villaggio si sveglia dimentico di tutto, pensando al nuovo giorno.
Peter Grimes, andata in scena a Londra nel 1945 con grande successo, è considerata il lavoro più insigne di Britten e addirittura una delle opere più rappresentative del Novecento, assieme a quelle di Puccini e Richard Strauss. Dopo la prima americana (1946, diretta da Bernstein) arrivò alla Scala già nel 1947, ripresa nel 1976, 2000 e, ultima, nel 2012. Sempre con nuove produzioni.
È articolata in un prologo e 6 scene. È opera “polifonica”, dove il coro ha un ruolo di primissimo piano. Largo spazio è dato anche agli intermezzi sinfonici.
Il linguaggio musicale, tipico di Britten, non si attiene a nessuna scuola, ritmo, sistema – né tonale né atonale né tanto meno dodecafonico -. Melodico, dunque? Anche, pur con tutte le sue aspre digressioni atte a produrre emozioni specifiche. Un po’ quel che succede con la voce, l’unico strumento musicale cui tutto è permesso per esprimere i suoi sentimenti (così se ne servì la Callas).
Quest’opera ti penetra dentro, sei obbligato a partecipare a quanto accade, sei travolto dal suo miserabile percorso, condividi le reazioni di ognuno dei suoi personaggi. Senza contare gli squarci del libretto di rapinosa poesia, come il monologo di Peter “Ora l’Orsa Maggiore e le Pleiadi, man mano che la terra si muove, raccolgono le nuvole della sofferenza umana, con un solenne respiro nella notte profonda” (Se questa non è lirica pura…)
A dirigere l’orchestra è Simone Young, anni 62 davvero incredibilmente ben portati, australiana di formazione germanica. Altissimi incarichi in tutto il mondo. Dal 2022 è membro onorario della Staatsopeer di Vienna. Alla Scala, prima del Peter Grimes ha esordito sostituendo in extremis Zubin Mehta nel concerto che comprendeva l’imponente Turangalila di Olivier Messiaen e ottenendo consensi entusiastici. Ieri sera, al salire sul podio per l’opera, la Young è stata salutata da un applauso intensissimo, quasi da beniamina del pubblico. Ovazione alla fine. È una musicista di rara statura non penalizzata dal curioso gesto molleggiato danzante un po’ goffo (Mica tutti possono avere il sublime aplomb di Muti!). Gli interpreti qui non si giudicano per linea di canto, doti o bellezza vocale, come succede per i vari Alvari e Leonore la cui sorte ci lascia del tutto indifferenti. Qui vale la intensità di espressione e partecipiamo personalmente alle loro passioni, come a vicende reali. Vorremmo quasi intervenire, fermarli nelle scomposte reazioni. Non fare così! Vai a finir male…
Gli interpreti, avvezzi a questo repertorio, danno il meglio, dal protagonista, l’americano Brandon Jovanovich, tenore wagneriano che la Scala conosce dai Racconti di Hoffmann del 2004; all’australiana Nicole Car (Ellen), nel 2013 insignita dell’International Opera Award nella categoria “miglior giovane cantante”, molto attiva nel repertorio mozartiano e dell’opera francese; Olafur Sigurdarson,(Capitan Balstrode) baritono islandese di frequentazione wagneriana, debuttante alla Scala; Margaret Plummer (Auntie) mezzosoprano australiano che proviene dal jazz, poi inserita nella compagnia itinerante di Opera Australia, nella scorsa estate ha debuttato al Festival di Bayreuth come Fanciulla Fiore; Peter Rose (Swallow) imponente basso anglosassone con preparazione scenica alla National Opera Studio di Londra. Debutto a Hong Kong nel Commendatore del Don Giovanni, poi molto Wagner. Di questi artisti cito il curriculum essenziale in quanto Britten non consente un giudizio da equiparare al tradizionale repertorio lirico. Ma almeno uno sa a quale categoria si possa riferirli. Orchestra e Coro eccellentissimi.
E veniamo allo spettacolo, il tredicesimo di Carsen alla Scala. Tutti memorabili. Qui è aiutato da scene e costumi di Gideon Davey, luci (magistrali) di Peter van Praet, coreografie pertinenti di Rebecca Howell, (autrice di tutte le coreografie delle opere con regia di Carsen); video design di Will Duke.
Peter Grimes è opera di mare e qui il mare è assente. Eppure gli ambienti hanno il suo odore (come la musica). Le strutture di legno grezzo, gli stivaloni dei pescatori, i secchi, le casse di pesce emanano dalla scena effluvi salmastri. Portano aiuto i video delle onde galoppanti e delle nuvole minacciose, proponendo un ambiente strettamente marino. Il palcoscenico è diviso orizzontalmente in due spazi: quello inferiore è popolato dalle masse che, negli interludi sinfonici, riempiono gli spazi con una presenza costante, spesso in coreografie dure e violente, quasi clandestine, immerse nel buio tanto da poterle far sembrare frutto delle elucubrazioni di Peter Grimes. A metà altezza corre un ballatoio sul quale Carsen fa scorrere il coro dei pescatori. Colore dominante il nero, ma fredde luci radenti o mirate evidenziano la profondità della scena. Ci sono squarci di luce calda negli interni notturni dei pub, da dove trasuda aria viziata e odore di alcool. Fuori infuria la bufera. Sbattono le porte ed entrano folate di vento e acqua. E vien fatto, al pubblico, di stringersi una sciarpa addosso.
Fosse questa pagina di un quotidiano qualsiasi, mi avrebbero tagliato la metà. Per fortuna sono sul web. Scusate se ho divagato ma valeva la pena. Il successo è stato trionfale.

“Peter Grimes” di Britten, eseguita nell’originale lingua inglese con sopratitoli italiani, replica i 21, 24, 27, 30 ottobre, e il 2 novembre. Inizia alle ore 20. Tre atti e due intervalli. Durata complessiva tre ore e 11 minuti