(di Patrizia Pedrazzini) – Colonia, 1972. L’affermato ed euforico regista Peter von Kant (Denis Ménochet) si sveglia nel proprio appartamento e incomincia a dare ordini a Karl, assistente tuttofare, obbediente e silenzioso, “schiavetto” che non dice una parola per tutto il film, subendo in efficientissimo silenzio le vessazioni del “genio” per il quale lavora, e al quale è totalmente devoto. In seguito, viene a trovarlo Sidonie (una in splendida forma Isabelle Adjani), vecchia amica, diva e sorta di musa ispiratrice, che di lì a poco gli presenta il proprio “protetto”, un giovane aspirante attore, Amir (Khalil Ben Gharbia), bello, fintamente ingenuo, sfrontato e interessato quanto basta. Peter, che esce da una relazione travagliata, ci mette un attimo a infatuarsene, e decide di farne una star, lasciandosi intrappolare in un amore totalizzante (e non ricambiato) che lo porterà sulla strada dell’autodistruzione.
Rilettura “al maschile” di “Le lacrime amare di Petra von Kant”, il film del 1972 di Rainer Werner Fassbinder (a sua volta tratto da un suo dramma teatrale), “Peter von Kant”, del cinquantacinquenne regista francese François Ozon, si delinea subito come una totale immersione nell’opera, e nella vita, del regista e scrittore tedesco. Per la storia, per l’impostazione squisitamente teatrale (è quasi totalmente girato in interni, a parte qualche raro squarcio “di strada”), per le tematiche che mette in scena. Persino per il ricorso, a titolo di sottofondo musicale, alla struggente “Each man kills the thing he loves” (“Ogni uomo uccide ciò che ama”), che Jeanne Moreau cantava in “Querelle de Brest”, del 1982, l’ultimo film di Fassbinder, che sarebbe morto di lì a poco, a 37 anni.
Un omaggio, dunque, al “mito”. Ma anche, inevitabilmente, un confronto. Dal quale emergono, da un lato l’ammirazione appassionata di Ozon (peraltro dichiarata fin dall’inizio) per il maestro, e la sua innegabile abilità nel riproporre, intrecciandole, finzione e realtà, pensiero e vita vissuta dello stesso Fassbinder, dall’altro il profondo divario che lo separa dal tedesco (a tutto vantaggio di quest’ultimo). Un esercizio, quello del confronto, interessante, tuttavia non necessariamente essenziale.
“Peter von Kant” è un film indubbiamente costruito, ma sentito, veritiero, e costruito bene. Nonostante tutti i rimandi. D’eccezione gli interpreti, da un Ménochet che anche fisicamente, quasi servendosi del proprio corpo massiccio e non più giovane, mette in scena tutta la propria potenza e fragilità, all’ottima performance di Stefan Crepon nelle vesti di Karl, sorta di marionetta quasi aliena che tutto vede e tutto tace, ma che non per questo non ha un cuore.
Fino ad Hanna Schygulla (attrice fra le più amate dallo stesso Fassbinder) che, a 79 anni, interpreta qui, con garbo saggio e insieme leggero, la madre di Peter. Cercando di far riflettere con dolcezza il figlio, devastato dalla gelosia e dal dolore dell’abbandono, sui rischi, le debolezze e gli errori che l’amore porta con sé. E di trasmettergli serenamente la sola verità che, da madre e da donna cui la vita non ha lesinato insegnamenti, ha fatto propria. E cioè come l’amore altro non sia, alla fin fine, che il coraggio e la capacità di “lasciar andare”.
Bello, necessariamente “di nicchia”, e preferibilmente da vedere in versione originale (francese e tedesco), con sottotitoli.
“Peter von Kant”. Il francese Ozon ancora alle prese con il mito di Fassbinder. In un film sull’amore e le sue ossessioni
21 Maggio 2023 by