VENEZIA, giovedì 3 agosto ► di Paolo A. Paganini ●
TODI IS A SMALL TOWN IN THE CENTER OF ITALY – Con il teatro-inchiesta, o teatro-documento, o chiamatelo come volete, si va quasi sempre sul sicuro. Prendi un argomento, lo giri sotto sopra, fai un po’ d’interviste, mettile in TV a circuito interno o trasferiscile su grande schermo, e il lavoro è già fatto a metà. Ma ci sono anche gli attori. Nessun problema. Essi generalmente si muovono in parallelo su due storie: una privata, personale fatta di buoni sentimenti e rapporti solidali; e un’altra pubblica, interloquendo, commentando o provocando nel bene e nel male le inchieste di cui sopra. Qui, alla Biennale Teatro, il gioco, nel caso specifico, è condotto da Livia Ferracchiati, testo e regia, che ha presentato TODI IS A SMALL TOWN IN THE CENTER OF ITALY, che non è “La piccola città” di Thornton Wilder, Small Town, qui, è Todi, la più bella cittadina del mondo al centro dell’Italia, dicono i suoi abitanti, che tuttavia non sono stinchi di santo, non sono né pacifici né tolleranti, ma pettegoli, impiccioni, curiosi dei fatti altrui, e collaudati esperti nel tagliare i panni altrui. Todi, dunque, piccolo mondo antico, bello fin che volete, ma gretto ed egoista come tutte le piccole città del mondo. Qui, si svolge l’inchiesta in questione. Ci sono quattro giovani amici, fraterni compagni fin da bambini (Caroline Baglioni, Michele Balducci, Elisa Gabrielli, Stella Piccioni, che danno gli stessi nomi ai loro personaggi), giovani di belle speranze, si fa per dire, che conducono una vita di noia e di attese, con i loro problemi di sesso e di inettitudini, passando da una gelateria a una pubblica scalinata. Fra di loro e tra i cittadini di Todi, si muove un documentarista (Ludovico Röhl), che vuol mettere il naso in tante storie, che ciascuno preferisce tenere per sé. Per esempio: cosa pensano degli scandali, e cos’è uno scandalo; andrebbero via da Todi e, se no o se sì, perché; e poi cosa pensano della religione, e dei migranti, e del sesso; e di cosa a Todi sia meglio non fare. Domande su cui tutti preferiscono scherzare, perché tutto è tabù, e tutti ci girano intorno, vecchi e giovani, tutti pavidi e soprattutto preoccupati di cosa dirà la gente. In questo gioco di complicità sentimentali e di ambiguità (anche loro coltivano qualche tabù), la simpatia e lo spirito di corpo animano gli attori, che sono tutti bravi e accattivanti, ancorché statici (ma che altro avrebbero potuto?), e che alla fine, dopo 70 minuti, alle Tese dei Soppalchi, all’Arsenale, ricevono giusti e meritati consensi.
LE MILLE E UNA NOTTE – Sempre in serata, è stato presentato il terzo e ultimo allestimento di Maria Grazia Cipriani. Proprio alla fine, la geniale e creativa regista è inciampata su un argomento che, dopo i precedenti “Biancaneve” e “Pinocchio”, esaltanti prodotti d’annate 1983 e 2006, poetici e commoventi, s’è incaponita in un’operazione dura, incomprensibile, di grande impatto visivo, ma velleitaria, priva di consonanze poetiche. E politicamente impegnata. Cosa giusta, ma inaspettata, in un contesto che richiamava ben altri motivi d’attesa. Verso la fine dello spettacolo, dando così un senso più specifico a tutta l’operazione, la Cipriani denuncia stupri, femminicidi e infanticidi, avvenuti nel mondo qua e là: una donna accecata dopo lo stupro perché non riconoscesse i militari violentatori; un’altra stuprata e martortiata da militari serbi; una madre e la sua bambina stuprate durante la guerra civile nel Congo, dove almeno 200 000 donne sono state seviziate ed uccise, ecc. Tutto ciò diventa, in scena, pretesto di stridente violenza, specie nel mettere all’asta gli indumenti delle vittime dopo lo stupro. Anche la civiltà ha le sue barbarie. E tutto partendo da “Le mille e una notte”, ch’è una raccolta di storie indiane, arabe e persiane, risalente al 900 d.C. dove c’è la Principessa Shahtrazad che racconta al sultano Shahrigar storie d’amore ed erotismo, per allontanarlo dal suo odio per le donne, dopo il tradimento della prima moglie. Da allora uccide sistematicamente tutte le altre dopo la prima notte di nozze. Ora, la bellissima Principessa, sua novella e predestinata sposa, di notte in notte racconta avvincenti storie d’amore per tenere occupato il marito in altre fantasie. E tutto si conclude con amore e rinsavimento. Così nel testo. Ma ora, secondo una tendenza che sembra ossessivamente coinvolgere le registe della Biennale, la violenza, la crudeltà, la malvagità, con la loro scia di sangue e di morte, anche qui (in 90 minuti) diventano predominanti e fine a se stesse: l’amore tragico d’una ninfa per Narciso; storie di dei e di umani destini, tra Amore e Follia; e il sangue della ragazza dai capelli d’oro; e la storia d’amore di Apollo per Dafne. E così via, secondo le scelte della Cipriani che ha voluto privilegiare il filone greco-ellenistico, che è parte minima delle “Mille e una notte”, ed altri aspetti d’altra congerie. Così, saltan fuori la storia di Arianna, Teseo e il Minotauro. E salta fuori la vicenda della pazzia di Orlando e dell’amore di Angelica e Medoro. E la tragica vicenda shakespeariana di Ofelia… Insomma, il rispetto contestuale è piuttosto ballerino. Ma tutto è in carattere con una inusitata potenza drammaturgica. E si presta a una teatralità che sarebbe inutile e sciocco non riconoscere. Eppoi, qua e là, ad addolcire le anime, c’è sempre la tentazione liberatoria d’un sorriso. Magari con una bella canzone. Vivere senza malinconia, senza più gelosia… ridere delle follie del mondo.. la vita è bella e la voglio vivere sempre più. E questo è veramente un irridente colpo gobbo della Cipriani al suo congedo da Venezia. Brava. E bravi gli attori: Elsa Bossi, Giacomo Vezzani e Nicolò Belliti.