
Ian Bostridge (Peter Quint) e Miah Persson (l’Istitutrice) in “The turn of the screw “di Benjamin Britten. Direttore: Christoph Eschenbach Regia: Kasper Holten. Scene e costumi: Steffen Aarfing. Luci: Ellen Ruge. Drammaturgo: Gary Kahn
MILANO, giovedì 15 settembre ►(di Carla Maria Casanova) Benjamin Britten era un signore con dei problemi. E chi non li ha? Lui magari li aveva più di un altro. Era cattolico, credente e aveva un compagno d’arte e di vita (il tenore Peter Pears, musa e interprete ideale di quasi tutte le sue opere). La relazione durò 40 anni, fino alla morte di Britten. Oltre a questa situazione che, benché ufficialmente ammessa, angosciava il compositore, egli aveva una mente tribolata, forse retaggio di traumi adolescenziali.
Tra le opere più significative in questo senso è The turn of the screw (Il giro di vite) ieri sera alla Scala, per la prima volta in lingua originale. L’opera andò in scena a Venezia esattamente 62 anni fa, il 14 settembre 1954, commissione del XVII Festival internazionale di musica contemporanea.
Il libretto riprende il celebre racconto di Henry James, grande scrittore nordamericano naturalizzato inglese, specializzatosi sul tema della coscienza e della moralità e con un certo penchant per il poliziesco (vedi “Il carteggio di Aspern”).
The turn of the screw è molto più di un giallo. È una terribile storia dominata da fantasmi (ma saranno poi veri?), imperniata su due bambini (ragazzini modello? creature perniciose possedute da spiriti diabolici?). I bambini creano sempre, in bene o in male, situazioni abnormi e indefinibili. Una frase del libretto potrebbe tagliare la testa al toro “La cerimonia dell’innocenza è morta”. E con ciò si potrebbe chiudere. Ma l’opera finisce con una sorta di redenzione: Miles, il bambino, messo alle strette dalla giovane sconvolta istitutrice, rivela infine il nome del suo malefico spirito-guida (dunque, tutto vero!) e poi muore.
Non occorre specificare che l’atmosfera della vicenda (due atti, circa due ore di musica) è plumbea e inquietante. La musica dipana queste ambiguità con sovrana eleganza, sfruttando la tensione nevrotica, le nostalgie, le estenuanti dolcezze. Ci sono le vocette petulanti dei bambini (a mio avviso sempre insopportabili in scena anche quando inevitabili). La scrittura musicale è colta, intellettuale, di altissima caratura, come sempre in Britten. Organico orchestrale ridotto (13 elementi), guidato con estrema attenzione da Christoph Eschenbach. Cast dominato da un magistrale Jan Bostridge (Quint, parte scritta per Pears) con il supporto di ottimi elementi quali Miah Persson (l’Istitutrice) e Jennifer Johnston (mrs Grose).
The turn of the screw è opera difficilissima da portare in scena, svolgendosi nell’impero del fluido, dell’inconfessato, del dramma nascosto e rifiutato. Steffen Aarfing (scene e costumi)) ha risolto in modo asettico, praticamente senza colori, chiedendo aiuto al cinema con scene realizzate in una sorta di sequenza di fotogrammi che scorrono sul lato destro. Le luci piatte, spietate, sono di Ellen Ruge.
Ci sono stati molti applausi.
Non per fare la spiritosa a tutti i costi ma così, nel ridotto, a spettacolo finito, ho soffiato all’orecchio di qualche collega:“Be’, io preferisco l’Aida”. Non avrei creduto: non uno che non fosse d’accordo.
“The turn of the screw”, di Benjamin Britten, da Henry James. Teatro alla Scala, Milano. Repliche: venerdì 16, martedì 20, mercoledì 28, venerdì 30; giovedì 13 ottobre, lunedì 17 ottobre.