Pontiggia, inesausto collaudatore del linguaggio, così sperimentava la parola scritta e lo stile orale

(di Piero Lotito) «Il pallone fa la barba al palo», frase tra le più tipiche del gergo calcistico, per questo popolarissima. Ma il gergo, insegna Giuseppe Pontiggia, «non consente al linguaggio di esplorare, di verificare e collaudare esperienze nuove e diverse». E questo ‒ «l’invadenza dei gerghi» ‒ è una delle cause del fenomeno di deterioramento e impoverimento del linguaggio.
Proprio il linguaggio, la verità del linguaggio, fu per Pontiggia, scomparso il 27 giugno 2003, il lume conduttore di tutta una produzione letteraria. Lo prova ancora oggi un sapiente libretto pubblicato da Marietti 1820 a cura di Daniela Marcheschi, che di Pontiggia è ritenuta il maggiore studioso. Il bel titolo del volume, Le parole necessarie, già di per sé esplicito, rivela nel sottotitolo Tecniche della scrittura e utopia della lettura quella vocazione per l’insegnamento ‒ trasmissione di sapere ‒ che Pontiggia avrebbe sempre onorato con una dedizione rara a vedersi in uno scrittore di successo come lui, fin da quando, nel gennaio 1985, Raffaele Crovi gli chiese di tenere in sua vece i corsi di scrittura al Teatro Verdi in via Pastrengo a Milano.
Accanto al lavoro primario di saggista e romanziere, Giuseppe Pontiggia coltivava, per così dire, un’attività parallela: l’impegno, a volte intenso, di conferenziere. Lo appassionava molto, perché gli permetteva ‒ parliamo di uno sperimentatore mai sazio ‒ di mettere a frutto seducenti tecniche di oralità, che in lui erano certamente innate, ma pure soggette a uno studio continuo. E quando si trattò di avviare il suo insegnamento al Teatro Verdi, scrive Daniela Marcheschi introducendo Le parole necessarie, «la prima e fondamentale questione che gli si era posta era stata quella di illuminare il rapporto fra oralità e scrittura, nella direzione di chiarire agli allievi che cosa significassero la parola, il parlare e lo stile orale, intesi joussianamente come energia vivente e pienezza significante». Stile orale che Pontiggia avrà poi modo di mettere magistralmente in campo nelle conversazioni radiofoniche sulla scrittura per Dentro la sera (Radio 2, 1994) e per Damasco (Radio 3) nel 2002, quando raccontò agli ascoltatori, facendoli quasi “vedere”, Hemingway, Kafka, Svevo, Čechov e Joyce.
Il libro qui presentato raccoglie appunto tre interventi orali di Giuseppe Pontiggia (inedito il primo): Le parole e la «rettorica» del 1986, Come rendere più espressiva la scrittura del 1991, Leggere come felicità dell’utopia del 1996. Tre conferenze, tre lezioni per occasioni e uditorii diversi: la Confcommercio di Milano; l’Art Directors Club Italiano, associazione dei creativi della pubblicità italiana; il Gabinetto Vieusseux di Firenze. I tre testi, avverte Daniela Marcheschi, sono stati pubblicati mantenendo il più possibile il loro timbro di oralità, così valorizzando l’altra faccia della parola, quella non scritta, come usava lo stesso Pontiggia «ogni qualvolta aveva a che fare con trascrizioni di lezioni proprie sul parlare e lo scrivere, intervenendo poco, misurando le correzioni».
Ma vediamo qualche esempio della bravura e della leggerezza con le quali Pontiggia deliziava i suoi ascoltatori. In Come rendere più espressiva la scrittura, leggiamo: «Ricordatevi che l’aggettivo deve aggiungere. Se non aggiunge, toglie. Bisogna ragionare per l’aggettivo come fa un banchiere: “Se non guadagno, perdo”». In Le parole e la «rettorica», sui classici: «Generalmente gli studenti affrontano i classici con una sorta di rassegnazione preventiva: li considerano raccomandati di ferro, che hanno resistito per trasmissione scolastica, anziché scrittori che hanno resistito al collaudo dei secoli». In Leggere come felicità dell’utopia: «Perché leggere un libro (senza punto interrogativo, ndr). Se si fosse sinceri, non sarebbe una domanda. E neanche una risposta. Sarebbe dire perché respirare e vivere».

Giuseppe Pontiggia, “Le parole necessarie”, a cura di Daniela Marcheschi. Marietti 1820, 2018, pp 105, € 9,50.