Povero Goldoni, dilaniato da Pierfrancesco Favino a suon di sganasciate romagnole e canzoni anni Trenta

locandina servo per dueMILANO, mercoledì 10 dicembre   
(di Paolo A. Paganini) Dicono che il goldoniano “Servitore di due padroni”, adattato da Richard Bean con il titolo “One Man. Two Guvnors” (Un uomo. Due padroni), stia registrando da tre anni, a Londra, al National Theatre, un’incontenibile sequela di risate, di applausi, di esauriti. Non l’abbiamo visto e non entriamo nel merito. Ma ora abbiamo visto, al Teatro Manzoni, la versione italiana (tre ore con un intervallo), con una ventina di attori del Gruppo “Danny Rose”, distribuito in due cast, uno fino alla fine di dicembre, l’altro da gennaio a marzo, sempre capitanati dal quarantacinquenne Pierfrancesco Favino (anche regista con Paolo Sassanelli), che ora ha voluto far compagnia dopo tanto cinema (non solo in Italia), televisione e titolare d’un impressionante medagliere di premi. Non si è sentito nessuno borbottare : “Ma chi gliel’ha fatto fare!” La domanda verrebbe spontanea. Ma, si sa, il pubblico vuole divertirsi. Specie in tempi bui. E qui il divertimento è inseguito a tutti i costi. E qualche volta fa centro. Grazie soprattutto a uno spigliato, abile Favino, con un contorno di smaliziati e generosi compagni che gli tengono bordone.
Prendendo allegramente per i fondelli il nume italico Goldoni, se si è di bocca buona, se non si va tanto per il sottile per un facile pecoreccio, se non si ha voglia di sorrisi a bocca stretta per più sottili ironie, se proprio non si è fanatici estimatori di finezze da humor inglese, se insomma siete portati per uno scintillante cabaret non per cervelli fini ma per pance grasse, beh, lo spettacolo garantisce maiuscole risate.
Eppure, si tratta d uno spettacolo sbagliato.
L’impianto drammaturgico (povero Goldoni) traballa da tutte le parti. Esiste come fragile pretesto per tirare a campà e andare su altri versanti, i quali, invece, sono il vero piatto forte di questa sfrontata esibizione. Cominceremo dal gruppo di eclettici musicanti dal vivo, dal curioso nome “Musica da Ripostiglio”. Fanno spettacolo a sé. Già attaccano, accogliendo il pubblico in sala con canzoni anni Trenta, da “Maramao perché sei morto” a “Ludovico sei dolce come un fico”, a “Un sassolino nella scarpa” eccetera. Motivi giustificati dal fatto che lo spettacolo è ambientato proprio nell’epoca di quelle canzoni, nella Rimini di Fellini, con tanto di spiagge e transatlantico Rex, tra amori e amorazzi, tra parvenù, camicie nere, avvocati senza scrupoli e con i noti equivoci goldoniani di scambi di persona, qui-pro-quo, travestimenti e passioni scoperecce a lieto fine.
E con, al centro, la fame atavica di Arlecchino (Favino), che qui, ora, è il sempliciotto Pippo (ma la fame aguzza l’ingegno, e riesce sempre a farla franca). Conduce tutto lo spettacolo in generose quanto scontate performance, che raggiungono il loro apice nella famosa scena del pranzo servito ai due padroni. E qui, onestamente, tra sketch e caratteri da varietà, sincere bordate di schiette risate non si negano a nessuno.
E intanto l’orchestrina (chitarra Luca Giacomelli, banjo Luca Pirozzi, contrabbasso Raffaele Toninelli, percussioni Emanuele Pellegrini) continua a snocciolare (godimento garantito) canzoni tipo “Mille lire al mese” e “Pippo non lo sa”. Sicché, la mela spaccata in due, da una parte l’inconsistente impianto drammaturgico, dall’altra parte le allegre e disinvolte spigliatezze comico musicali da cabaret (quante mai ne abbiamo viste, dal Derby al Refettorio, alla Bullona) lo spettacolo va a ridosso della mezzanotte con un ultimo accenno ai boys e a “Sentimental” e con un’ultima ruffianata da Amarcord, con il Rex che procede sul fondale e se ne va, tra il tripudio delle umane genti.
Si replica fino a San Silvestro.