MILANO, venerdì 25 novembre ♦ (di Paolo A. Paganini) La vita senza un sorriso sarebbe un continuo funerale. Toh, mi son messo anch’io a metter giù aforismi. Il fatto è che, dopo aver visto al Manzoni “Nudi e crudi”, di Alan Bennett, con Maria Amelia Monti, Paolo Calabresi e Nicola Sorrenti, ragionavo sulla fortuna dell’aforisma, quando, da grano di saggezza in pillole, diventa fonte di comicità. Basta travestirlo un po’. Ed ecco che dall’aforisma nasce la battuta dispirito, diventa calembour, si tramuta in freddura e gioco di parole.
Ci sono stati dei geni del calembour e dell’aforisma:
Achille Campanile (“Mi spezzo ma non m’impiego“, “Alcuni scrittori hanno bisogno della vena, altri dell’avena“);
Giovannino Guareschi (“Non mi sono mai pentito di aver fatto domani quello che avrei potuto fare ieri o un mese prima“);
Pitigrilli (“Un uomo comune ragiona, il saggio tace, il fesso discute”);
Ennio Flaiano (“Chi mi ama mi preceda“);
Leo Longanesi (“Sono un carciofino sott’odio“);
Alessandro Bergonzoni (“Io sono per la chirurgia etica: bisogna rifarsi il senno”);
Mark Twayn (“La buona educazione consiste nel nascondere quanto bene pensiamo di noi stessi e quanto male degli altri“);
George Bernard Shaw (“Il silenzio è la più perfetta espressione del disprezzo“);
Oscar Wilde (“A volte è meglio tacere e sembrare stupidi piuttosto che aprire bocca e togliere ogni dubbio“).
Sull’aforisma, sulla freddura, sulla battuta di spirito (e mettiamoci pure sulla barzelletta, anche se tanti implacabili barzellettieri, tenaci assertori di “La sai l’ultima?”, è meglio evitarli, e cambiare marciapiede), si sono inventati generi letterari e teatrali. Alla rivista e al varietà non sarebbero bastate musiche e donnine, senza il comico e la spalla, con le loro sublimi idiozie. Dapporto e Macario ne sapevano qualcosa. E, per stare sul serio, anche Pirandello ha costruito racconti e commedie su una barzelletta o una battuta.
Ora, dunque, “Nudi e crudi”, tratto dall’omonimo libriccino di Bennett (Adelphi editore 2001 – 95 pagine di buonumore), entra con qualche diritto nel genere d’un allegro barzellettismo, fatto di battute all’inglese e di freddure all’italiana, su una trama di esile consistenza, ma giovialmente dignitosa. Descrive la tragicomica disavventura di due compassati coniugi inglesi che tornano dall’Opera, e trovano la casa svaligiata di tutto, e per tutto s’intende proprio tutto: mobili, moquette, carta igienica, forno con l’arrosto, sedie e spine della corrente… (“Vi hanno davvero lasciato in mutande…”, “No, si sono portati via anche quelle”).
Il racconto già suscita di per sé “una ilarità che assale sin dalle prime righe, e, quanto più si procede, tanto più essa si mescola con la percezione di una inquietante perfidia…” (dal retro di copertina).
In queste poche righe c’è già lo spirito dell’allestimento, ch’è sviluppato e condotto in allegria da Serena Sinigaglia, che dirige i tre comici, talvolta farseschi, interpreti del testo bennettiano, tradotto e adattato per la scena da Edoardo Erba.
Maria Amelia Monti, con quel suo divertente birignao, fa il verso all’ingenua e svampita padrona di casa, che tuttavia vede l’aspetto divertito e avventuroso di quella nuova esperienza fuori finalmente dalla paludosa routine della sua vita di benestante casalinga; Paolo Calabresi (metodico e pedante avvocato. “Siamo tutti esseri umani. Io sono un avvocato“, entra davvero, con comico convincimento, come da tradizionale cliché, nella parte di freddo e compassato inglese, con qualche veniale vizietto. Che però pagherà caro. E l’eclettico Nicola Sorrenti, personaggio di sesso ambiguo, scatenato folletto, come il Joel Grey di Cabaret, fa da conduttore e maestro di cerimonia, non disdegnando altre parti di contorno. Applaudito anche a scena aperta. Commediola festosa e dignitosa, graditissima dal folto pubblico del Manzoni. Si replica fino a domenica 11 dicembre.
Qualche calembour, un po’ d’intelligenti battute di spirito all’inglese. E, quando c’è la stoffa, tutto diventa una festa
25 Novembre 2016 by