FORLÌ, giovedì 2 maggio ► (di Andrea Bisicchia) Ultimata la Stagione invernale, si comincia a pensare ai Festival estivi che in Italia sono tanti con una identità sempre meno riconoscibile. Esiste una realtà mediana, che precede quella dei Festival, in cerca di “Un altro Teatro”, come quella del “Diego Fabbri” di Forlì, dove Accademia Perduta/Romagna Teatri ha ideato un ciclo coinvolgendo artisti, come Dario Manfredini, che ha presentato il suo ultimo spettacolo “Vocazioni”, un viaggio nelle paure, nelle ansie, nelle inquietudini dell’attore, nel momento in cui sta per andare in scena, o come Alessandro Serra che, con “FRAME” (già presentato il febbraio scorso al Teatro Fontana di Milano), ci dà un esempio ulteriore della sua poetica che fa nascere direttamente nello spazio scenico, in contemporanea col corpo degli attori.
Per questo spettacolo, egli dice di essersi ispirato ai quadri di Edward Hopper, creando, attorno ad alcuni capolavori, una trama visiva, senza che venga pronunciata una sola parola, dato che i cinque attori del Teato Koreja: Francesco Cortese, Riccardo Lanzarone, Maria Rosaria Ponzetta, Emanuela Pisicchio, Giuseppe Semeraro dialogano col pubblico attraverso l’uso del corpo, creando delle relazioni emotive con i loro movimenti e con la loro gestualità che non vuole avere nulla di concettuale.
Alessandro Serra, noto per il suo “Macbettu” e anche per la regia del “Costruttore Solness”, con un Umberto Orsini sciamanico, è il fondatore del “Teatro Persona” (1999) e autore di spettacoli come “Il grande viaggio”, “Aure”, “L’ombra della sera”, tutti costruiti sulla dinamica dei corpi e sulla ricerca dell’essenza stessa del teatro.
Ciò che a lui interessa non è tanto rappresentare, quanto poter esprimere delle sensazioni, senza l’apporto retorico della parola.
Rifacendosi al “Teatro corporeo” di Yves Lebreton, Serra costruisce la sua ricerca partendo da Decroux per arrivare a Lebreton, a Grotowski o a quello che Sisto Dalla Palma definì: “Il terzo Teatro”, un teatro performativo, che non disdegna la contaminazione, oltre che l’uso spregiudicato del rapporto tra vuoto e pieno.
I suoi spettacoli, come “FRAME”, non hanno una scenografia, nascono direttamente nello spazio vuoto del palcoscenico che egli arricchisce di oggetti quotidiani per dare ulteriore consistenza al suo racconto visivo. È chiaro che i quadri di Hopper siano un pretesto, anzi, ricordo che quando fu allestita, nel 2009, una mostra di Hopper con 166 opere, al Palazzo Reale di Milano, tra le quali, si potevano ammirare “Summer Interior” e “Morning Sun”, in una sala fu costruita una installazione interattiva, multimediale, che ricostruiva fedelmente la scenografia del dipinto “Morning Sun”. Il visitatore si sedeva sul letto bianco, fissava la finestra e diventava protagonista del quadro.
Serra non ricorre a nessuna istallazione, fa piuttosto ricorso, non solo alla fisicità degli attori, ma anche alle luci e alle musiche, con un diapason che, dall’inizio alla fine, come un basso continuo, scandisce il ritmo del tempo scenico e che vitalizza la “scatola scenica” di colore grigio, con, in fondo, una finestra, attraverso la quale, il fuori e il dentro finiscono per creare una dialettica con i corpi degli attori. Serra crea, attraverso i tagli di luce, dei “disegni”, dei “quadri” che prendono vita attraverso l’energia dei performer e che diventano, a loro volta, generatori di spazi. Il tutto “accordato” col silenzio assoluto del pubblico, silenzio che vuol dire partecipazione intensa.
“Un altro Teatro” continua il 12 maggio con “F. perdere le cose”, della Compagnia Kepler 452, e il 21 maggio con “Bello Mondo” del Teatro Valdoca, con Mariangela Gualtieri.