VENEZIA, lunedì 23 luglio ► (di Paolo A. Paganini) Ha il gusto giullaresco di spaziare tra satira, ironia e provocazione. Inflazionatore della parola, fino a straziarla, fino a sublimarla nel nulla. Irridente pornologo, irrefrenabile logorroico, scatenato terrorista linguistico contro ogni prudente perbenismo semantico, gioioso dispregiatore di sintassi grammaticali e istituzionali. Cioè, Antonio Rezza. Con l’inseparable compagna d’arte, Flavia Mastrella, ha da poco ricevuto alla Biennale il Leone d’Oro alla Carriera, ed ha ancora una volta colpito con il suo non nuovissimo “Anelante”, al Teatro alle Tese, all’Arsenale: un fuoco di fila di mitraglianti bordate al comune senso del pudore linguistico per più di un’ora e mezza.
La prima pare dello spettacolo è semplicemente da antologia. S’inserisce nello stile di tante celebri idiozie linguistiche, dalle Tragedie in due battute di Achille Campanile ai Salamini di Petrolini, dagli sgangherati sproloqui di Franco Franchi ai qui-pro-quo del Principe De Curtis, ma con l’irridente e vitalistica sensualità di un godereccio inno alla vita, come un novello Ruzante, o un redivivo Aristofane, indifferente ad ogni moralismo di bacchettoni e parrucconi.
Eppure, anche per lui, il troppo stroppia, e Rezza prende talvolta qualche zoppicante storta.
Questo “Anelante”, per esempio, ha un avvio a mille, giocando con le equazioni e le geometrie della vita in luminose parafrasi matematiche, tra Pitagora e Keplero. Irresistibile. Superbo. Esilarante.
Ma, nella seconda parte, una gentile e premurosa mamma ha portato fuor di teatro la propria già grandicella creatura, quando sulla scena Antonio Rezza e i quattro compagni di un inusitato (per Rezza) gioco corale han denudato il sedere e, chiappe al vento, l’hanno esibito al pubblico per non so quale esigenza drammaturgica, se non per una esibizionistica monelleria cabarettistica. Che poi c’entri qualcosa il termine “performer”, al quale è ispirata questa edizione della Biennale, non so. Applausi incondizionati alla fine. No repliche.
MA QUEST’ALTRO, IN PUNTA DI LINGUA
Nella stessa serata, sempre alle Tese, ha debuttato, in prima italiana, l’attesa ideazione registica di Vincent Thomasset, “Lettres de non-motivation”, una crestomazia di lettere di Julien Prévieux, con le quali l’artista francese spegava le ragioni per le quali reclinava offerte e possibilità di lavoro, esibite nelle pubblicità dei giornali. Ironia e umorismo con quella politesse tipicamente parigina, che rende accettabile perfino il rifiuto del buongiorno, se uno non ne ha voglia. Qui, il rifiuto è però provocatorio, per dimostrare, da una parte, l’alienante fumosità di favolose promesse di lavoro (sempre sottopagato), offerto dalle varie ditte ai vari: tecnico, programmatore, fattorino, dirigente, esperto di marketing o di elettrodinamica eccetera. E, dall’altra, i rifiuti spediti, ancorché non sollecitati, ma sempre esilaranti, in virtù di fantomatiche pretestuosità: invalidanti artrosi, oscure depressioni, misteriose autoreferenzialità, critiche agli orari e all’ambiente di lavoro o all’insufficiente remunerazione. Così scatenendo, da parte dei mancati datori di lavoro, ora divertite risposte ora piccate reazioni per i non richiesti rifiuti.
Di un noto attore ora scomparso si disse una volta: è così bravo che riuscirebbe a rendere convincente anche… la rubrica telefonica. Qualcosa del genere avviene, ora, per Thomasset, che ha scelto queste lettere non come testi teatrali, ma come “un insieme di materiali eterogenei, scritti o parlati, che sono anche un’indagine sul linguaggio”, anche se, letto il primo stelloncino pubblicitario di offerta di lavoro, con relativa e automatica lettera di rifiuto, lo spettacolo (un’ora senza intervallo) diventa prevedibile e ripetitivo. Ma è talmente amabile, di buon gusto e di fine intelligenza, che il pubblico alla fine l’accetta grato e divertito.
Basta poco, in fondo, a fare del buon teatro.
Applausi cordiali per i cinque attori-lettori: David Arribe, Johann Cuny, Michèle Gurtner, François Lewyllie, Anne Steffens. No repliche.