
Adriana Ferrer, Carlos Portaluppi e Elena Boggan in una scena di “Emilia” di Claudio Tolcachir al Piccolo Teatro Grassi
MILANO, venerdì 10 aprile ●
(di Paolo A. Paganini) Matrimonio, famiglia: sono durati secoli, pressappoco fino alla metà del secolo scorso, sostenuti e conclamati da fiumi d’inchiostro, da pagine di letteratura edificante, da florilegi d’inviolata e inattaccabile poesia, da una monumentale crestomazia di parole grondanti amore e alto senso morale, da Bacone a Rousseau, da Sant’Agostino a Manzoni, da Balzac alla Posta del Cuore delle riviste femminili. Poi arrivarono scrittori e poeti, come George Orwell o Ardengo Soffici, questi ammonì: “Non mi piace che la polizia s’immischi in cose amorose; ma, semmai, nel caso d’una donna colta in flagrante adulterio, si cominci coll’arrestare il marito...”, quello rincarò: “Quando si trova un coniuge ammazzato, la prima persona inquisita è l’altro coniuge: questo la dice lunga su quel che la gente pensa della famiglia!”
Fine di un mito.
Si cominciò a vedere nella famiglia ogni sorta di egoismi, di crudeltà, di prepotenze, in una rovinosa caduta di valori, spirituali sociali e morali. La letteratura voltò pagina. E il teatro trovò fertile e generoso humus, per attingere a piene mani nella tragedia della famiglia, dal precursore Strindberg a Eduardo, da Pirandello a Sartre. Fino, ora, all’argentino Claudio Tolcachir, né apologeta né iconoclasta della famiglia. Ma sottile e perfido descrittore delle mortali metastesi che si annidano nelle zone oscure dell’insoddisfazione, del cieco possesso, delle ottuse gelosie. E soprattutto dell’amore inteso come strategia dell’insostituibilità, che è il massimo della perfidia. Tu non puoi fare a meno di me! Dall’italico mammismo al plagio più smaccato e crudele su caratteri deboli e indifesi: figlio marito moglie o cane che sia. Un’abilità psicologica sopraffina: convincere un po’ alla volta di essere necessari e insostituibili, dal cambio dei calzini al soddisfacimento sessuale, dalle attenzioni alimentari al martellamento: come me non ti amerà più nessuno…
È, grosso modo, quanto avviene in “Emila”, di Claudio Tolcachir, un’ora e trenta senza intervallo al Piccolo Teatro Grassi.
L’ormai anziana Emilia ritrova Walter, quarantenne pacioso e premuroso padre e marito, che lei aveva accudito come tata quand’era bambino. Emilia aveva riversato su di lui amore affetto comprensione, sostituendosi a una madre assente e indaffarata. Soprattutto edulcorò e consolò le insicurezze del bambino, timido grasso e balbuziente, esasperandone crudamente i limiti, e, anziché spingerlo ad azioni gratificanti, si preoccupò di cullarlo nella rassicurante bambagia che solo lei poteva capirlo…
Ora il quarantenne, apparentemente realizzato e sicuro di sé, si ritrova con una moglie catatonica, con un figlio adolescente e sessuomane, e con la vecchia Emilia, divenuta ospite stabile in casa, mezzo domestica mezzo consolatrice d’anime, di nuovo abile concertante di dolci veleni, per ricreare antiche sudditanze, insostituibili sentimenti d’amore. Ma la moglie non ne può più di quel marito ora piagnone ora prepotente, e fa le valige. Lo stesso figlio, amatissimo, ma non di sangue, essendo il frutto materno di un precedente matrimonio, sarà preteso dal vero padre, che arriva a sparigliare i giochi familiari (sul ragazzo il padre putativo aveva esercitato le stesse tecniche dell’insostituibilità, così ben connaturate dopo le lezioni di Emilia, schiaccianti per il figlio, ma inefficaci sulla moglie)…
Tragedia finale.
Abbiamo dedicato tanto spazio al significato dell’opera di Tolcachir, perché s’è creata una non intenzionale confusione sulla reale pregnanza morale dei personaggi. Specie sul ruolo di Emilia (una straordinaria Elena Boggan). Sicuramente sarò smentito, ma Emilia è un’anima luciferina, altro che buona e fedele, è una diabolica manipolatrice di anime. Così almeno dovrebbe essere giudicato chiunque conculchi la dignità umana, ignorando il dovuto rispetto dell’altrui sensibilità e il prioritario valore della libertà. Senza libertà non esiste l’amore, né qualsiasi altro affetto. Ora, in questa frana di anime, nel dramma inscenato al Piccolo, in un crescendo di teso disagio, tutti i personaggi (la recitazione è ai massimi vertici del realismo interpretativo) cercano di porsi come insostituibili. Tutti autodistruggendosi in un tragico equivoco esistenziale di prevaricazioni: il quarantenne (Carlos Portaluppi) che crede nella propria insostituibilità di pater familias e di marito, la moglie (Adriana Ferrer), che, non sapendo essere insostituibile nell’amore del figlio, si ammala di depressione; il figlio (Francisco Lumerman), che ritiene il padre acquisito insostituibile alla propria e alla di lui felicità, il padre naturale (Gabo Correa), che vorrebbe esigere la legittimità della propria insostituibile figura di padre… Lo stesso cane Roco, ohibò, che, morendo anni prima, si riteneva insostituibile alla felicità di Emilia! E che tenera e commossa la rievocazione che ne fa Emilia. E, sul finire, in tanta miseria, che alto e nobile riscatto sarà l’elogio del padre acquisito alla vera paternità, quella del sacrificio, dell’amore, della presenza.
Lo spettacolo è in lingua spagnola (questa meravigliosa lingua spagnola!) con sopratitoli in italiano. Caloroso consenso finale.
“Emilia”, scritto e diretto da Claudio Tolcachir, al Piccolo Teatro Grassi, Via Rovello 2, Milano. Repliche fino a domenica 19.