Quando l’insicurezza genera mostri e si fa violenza. Morale antica e collaudata: un paio di ceffoni. E tutto si risolve

Elena Arvigo in Il bosco di David MametMILANO, sabato 6 giugno   
(di Paolo A. Paganini) Autore teatrale, saggista, docente, romanziere, sceneggiatore, regista, produttore cinematografico, il sessantasettenne autore statunitense vanta, ovviamente, con un così ricco medagliere di titoli, una mostruosa collezione di opere, di trofei, di successi nelle più sventaglianti aree della creatività teatrale, cinematografica (e televisiva). Basterà ricordare, per il teatro (più di trenta opere), “Sexual Perversity in Chicago”, “American Buffalo”, “Glengarry Glen Ross”… E, per il cinema, come regista e sceneggiatore (oltre cinquanta titoli, molti mutuati dalla drammaturgia), film come “Il postino suona sempre due volte”, “Il verdetto”, “Gli intoccabili”, “Homicide”,”Sesso & potere”, “Oleanna”, “Il colpo”…
Questo per sottolineare la sua incredibile capacità funambolica di giocare con le storie e con le parole. E, anche quando le storie si rivelano di gracile fattura strutturale, la parola viene in soccorso con straordinaria forza evocativa. Spesso paragonato a Pinter, per la sua abilità minimalista di indagare sui risvolti più oscuri ed ambigui della realtà, Mamet ama aggirarsi in quel misterioso sottofondo, dove la verità è intrisa dalla menzogna, dove la realtà s’insinua inesorabilmente tra i fondali dell’insicurezza e della violenza (quando l’insicurezza si scatena nella violenza). Il linguaggio, poi, è pur vero che appare povero o banale o convenzionale, ma è attinto dalla strada, è documento linguistico, è specchio dei tempi.
Come, ora, ne “Il bosco”, opera (salvo smentite e correzioni) d’una trentina di anni fa.
Si narra d’un fine settimana, in riva a un fiume, lontano dalla civiltà, nella vecchia casa di famiglia di Nick, il quale si accompagna a Ruth, forse per trovarsi, per capirsi. Da un punto di vista psicologico, viene subito colta la diversa natura del rapporto di generi. Lei pensa all’amore eterno con questo suo uomo, al quale vorrebbe promettere attese di vita, dedizione, forse felicità. Lui è musone, problematico, ma affettuoso e, soprattutto, con limitate visioni esclusivamente copulesche di amori senza complicazioni. Comportamenti tipici dell’uomo e della donna, no? Inoltre, lei è un’entusiasta della natura, delle passeggiate a piedi nudi nel bosco, dell’acqua, della pioggia, dei tuoni, delle storie di orsi e di procioni. Lui pensa con intensità di desideri e cumuli di nostalgie alle tante storie scoparecce vissute in quella casa fatiscente, ma è anche turbato da incubi e inquietudini per la presenza fantasmica e ricorrente d’un vecchio orso, scacciato tanti anni prima dalla sua tana per far posto a quella inutile casa dei ricordi.
Con queste premesse, per un’ora e un quarto senza intervallo all’Out Off, il travolgente effluvio di parole della giovane donna e i puntellanti e mal sopportati interventi dell’uomo, del tipo “Ma no!”, “Davvero?”, diventano uno studio intimista vissuto fra i due, come se il pubblico non esistesse, e, semmai, li spiasse da una fessura della vecchia casa. Chi sente sente e chi non sente immagini. Poi, oltre la metà, il rapporto tra i due diventa inaspettatamente travolgente, anzi travolto da quella mal sopportata convivenza e incapacità di comprendersi, diventando violenza fisica, brutale tentativo di possesso maschlista. L’insicurezza dell’uomo esplode in una brutalità che ha radici profonde, forse patologiche. La donna stessa, emergendo da uno schizofrenico sdoppiamento, abbandona le spoglie di una dolcezza tenera e fragile, per assumere una determinatezza felina, indomabile, in una girandola di tramortenti ceffoni (veri) induce l’uomo ai più miti consigli di una piagnucolosa arrendevolezza.
E chissà che non sia questa la formula dell’amore eterno vagheggiato dalla donna! La quale è interpretata da una ammirevole Elena Arvigo, non nuova a interpretazioni estreme, alla Sarah Kane, e qui elargitrice di incredibili gamme espressive e di volumi tonali (con qualche passaggio dall’esibizione all’esibizionismo). Ma brava, veramente brava. Firma anche la regia, che abbiamo condiviso quasi in toto (un taglio iniziale sarebbe stato gradito). Bene assistita dalla presenza di Antonio Zavatteri, eclettico attore tra ricerca e tradizione, qui un po’ anima nera, ma forse prossima alla redenzione. E poi si dice che i ceffoni non servono a niente!
Pubblico attento e alla fine prodigo di cordiali consensi.

“Il bosco”, di David Mamet, con Elena Arvigo e Antonio Zavatteri. Al Teatro Out Off, via Mac Mahon 16, Milano. Repliche fino a domenica 14 giugno.