(di Marisa Marzelli) – Vincitore, piuttosto a sorpresa, del massimo premio all’ultima Mostra del cinema di Venezia, La scelta di Anne – L’événement, ha avuto la fortuna di essere il film giusto arrivato al momento giusto per acchiappare il Leone d’oro. Non significa che manchi di pregi, dico solo che un’opera a basso budget così disturbante e politicamente fastidiosa (fra le righe, in epoca di rinate tentazioni reazionarie) in un altro momento sarebbe magari passata inosservata.
Intanto, il film è diretto da una donna, la regista Audrey Diwan; tratto dal libro autobiografico della scrittrice Annie Ernaux; con protagonista la giovane attrice Anamaria Vartolomei (presente in ogni fotogramma) ed è monotematico su un tema squisitamente femminile come l’aborto. Anche se in termini sociali sono soprattutto gli uomini e (in astratto) la politica a disquisirne.
Provincia francese, anno 1963. Anne è una brillante studentessa universitaria, motivata dalla ferma volontà di volersi emancipare dallo status modesto della famiglia e farsi strada nella vita professionale. Dopo una insignificante relazione sentimentale con un coetaneo ricco borghese si scopre incinta. Che fare? A quell’epoca l’aborto non era legale (lo sarebbe diventato solo con una legge del 1975) e chi lo praticava finiva in galera. Una cappa di perbenismo ad ogni livello sociale fingeva di ignorare la problematica. Anne non vuole tenere il bambino, sa che se lo facesse i suoi progetti di vita futura cadrebbero. Ma non sa a chi chiedere aiuto. È completamente sola, mentre il suo corpo si modifica e il tempo per intervenire si sta esaurendo – il procedere del racconto è scandito, come capitoletti, dal susseguirsi delle settimane di gestazione –. Il rendimento scolastico crolla, i genitori non capiscono cosa le stia succedendo, il padre del nascituro si defila, le amiche l’abbandonano, i medici che consulta se ne lavano le mani per paura di conseguenze giudiziarie. Tra mille timori e sofferenze la ragazza tenta una soluzione fai da te, con le possibili pericolose conseguenze sanitarie, finché qualcuno le dà l’indirizzo di una donna che pratica aborti clandestini; ma bisogna trovare i soldi per pagarla.
Sempre più angoscioso e claustrofobico, il film procede non risparmiando allo spettatore scene molto crude, ma la conclusione giunge affrettata, rispetto alla più lenta costruzione del dramma, con un quasi lieto fine. Anche se l’esperienza segnerà per sempre la ragazza.
Semplificato e quasi schematico nel descrivere i contorni (sebbene emerga con pochi tratti una società bacchettona e asfissiante; si capisce anche perché cinque anni dopo sia esploso il ’68), il lavoro si concentra sulla strenua lotta di Anne per difendere la sua scelta di futuro da una maternità non voluta. Lo sguardo della regista non è giudicante ma è solo il gelido racconto dello svolgimento dei fatti. Con assoluta laicità (senza suggerire considerazioni etiche, religiose o moralistiche). E con la macchina da presa costantemente incollata alla protagonista, attrice rumena naturalizzata francese, perfetta per il ruolo nel suo rappresentare una giovane donna normale, come ce ne sono tante. La tesi di fondo è abbastanza trasparente: quando il corpo delle donne appartiene alla società, ma loro stesse non possono disporne, dove sono finiti i diritti individuali?
Ora, in questo strano momento storico in cui in alcuni Paesi, dalla Polonia ad alcuni Stati americani (proprio in questi giorni la Corte suprema discute la legge del Texas che limita l’interruzione di gravidanza), si sta facendo marcia indietro restringendo i diritti acquisiti sull’aborto legale, è il caso di porsi qualche domanda. Il film non tace che l’aborto in sé sia già un trauma e un orrore, ma a maggior ragione dovrebbe poter essere praticato senza supplementari rischi.
Stomaci deboli e anime troppo candide, prego astenersi dal vedere il film.
Quando l’orrore dell’aborto era una pratica clandestina. Ma una cappa di perbenismo fingeva di ignorare il problema
2 Novembre 2021 by