Quando l’utopia era una forma di rivolta. Un libro cult di Marcuse. Un’intera generazione lo portava nel taschino

4.8.16 collage marcuse(di Andrea Bisicchia) È forse un luogo comune dire che durante l’estate si leggano più libri, generalmente leggeri, per rendere più appetibili le vacanze. C’è chi ne approfitta per rileggere, come metodo critico, libri abbandonati negli scaffali, noti a una generazione, sconosciuti ad altre. Potrebbe essere il caso di “Fine dell’utopia” di Herbert Marcuse, Laterza 1967, che la mia generazione portava nel taschino, magari in opposizione al “Libro rosso” di Mao.
Se questo non ha più senso rileggerlo, quello di Marcuse potrebbe apparire più profetico a una generazione che non crede alle ideologie, alle utopie, incapace di ribellarsi come quella del ’68 che scelse l’utopia come forma di rivolta. In una società come l’attuale, che non possiede nessun concetto utopico, che si assoggetta ai piccoli poteri di turno, quanto potrebbe essere utile leggere il libro di Marcuse? Certamente la inviterebbe a riflettere sulla propria capacità decisionale o sulla propria indipendenza che non vengono offerte gratuitamente, ma che si conquistano con l’opposizione permanente, con la ribellione, con la negazione di ogni potere costituito.
Marcuse dialogava con i suoi studenti, insegnava loro come si conquista, non solo il presente, ma anche il futuro perché in essi aveva individuato i germi della trasformazione, oltre che il bisogno di libertà che coincideva col bisogno di felicità, benché si scontrasse con quello di necessità. È vero che il destino normale dell’umanità sia stato quello della miseria, dell’insicurezza, della malattia, ma sono esistiti dei momenti durante i quali il corso della Storia poteva essere deviato con la forza della resistenza e della lotta ai poteri occulti, a quelli deviati e a quelli finti democratici.
Questo poteva avvenire, secondo Marcuse, col ricorso all’immaginazione che divenne lo slogan della rivoluzione studentesca: “L’immaginazione al potere”, come dire che una società senza fantasia può ritenersi morta, incapace di risolvere i problemi umani che cambiano con l’evolversi delle società. Fourier sosteneva che le società utopiche rappresentano una negazione storico-sociale dell’esistente. Perché la società odierna non sente il bisogno di trasformazione? Perché continua a sopravvivere a se stessa? Perché non ha né immaginazione né fantasia, perché si lascia manipolare dal consumismo, benché non possegga le risorse di quella società opulenta che caratterizzò gli Anni Sessanta e che dette il via all’enorme consumo prodotto dalle nuove tecnologie che, nel frattempo, avevano eliminato una parte della miseria del mondo?
A dire il vero, esistono delle società libere e altre non libere, la colpa non va ricercata negli altri, bensì in noi stessi. Avviene che, col passare del tempo, le società diventino immature, che vivano in uno stato di letargo e accettino, supinamente, un continuum storico. Per uscire da questo letargo si può rifiutare una simile idea di Storia reagendo, però, con un salto netto, progettando, nel contempo, l’idea di una società nuova col ricorso a ogni forma di ribellione.
È un’illusione? Un’utopia? E’ difficile coltivarla? O forse è meno dannoso il quietismo, il disfattismo senza senso?
Per essere nuovi non bisogna essere legati al sistema che produce dominio e non ricorrere all’etica dell’opinione, bensì a quella della responsabilità propria e degli altri, consapevole di saper distruggere con la forza del piacere creativo, del sapere utilizzare un radicalismo capace di realizzare le riforme possibili senza sentirsele semplicemente annunziare.
La ribellione a cui allude Marcuse non cerca l’eccesso che può essere produttore di crisi, come lo fu quello del ’29, crisi avvenuta, non per difetto, ma per eccesso di beni, non dissimile dalla nostra dovuta all’eccesso della finanza.

Herbert Marcuse: “La fine dell’utopia”, Laterza 1967