(di Marisa Marzelli) Poteva arrivare nelle sale qualche settimana prima, ma il regista Marco Tullio Giordana ha un po’ tergiversato, per far coincidere l’uscita del suo ultimo film Nome di donna con la giornata dell’8 marzo. Perché affronta il tema delle molestie sul lavoro. Però non c’è il dubbio di un instant movie realizzato sulla scia dello scandalo Weinstein e del movimento Me Too. Giordana, che torna al cinema sei anni dopo Romanzo di una strage, lavorava da tempo, con la co-sceneggiatrice Cristiana Mainardi, a questa tematica sinora poco frequentata dal cinema (in particolare italiano) e diventata ora di bruciante attualità.
Marco Tullio Giordana, si sa, pratica un cinema civile – nei casi migliori appassionato – attento alla storia patria spesso insanguinata (le sue opere più riuscite girano attorno agli Anni di piombo e ai delitti di mafia). Stavolta manca la passione, ma c’è l’osservazione attenta di piccole violenze diffuse, sottovalutate proprio perché comuni.
Nina (Cristiana Capotondi), madre di una bambina, restauratrice che ha perso il lavoro, si trasferisce da Milano in campagna, dove ha trovato un posto di inserviente in una casa di riposo per anziani benestanti. Sembra un posto idilliaco, finché una sera il direttore le chiede di andare nel suo ufficio dopo la fine del lavoro, le offre un bicchiere di vino, le fa delle avances. Non succede niente di irreparabile ma la ragazza resta sorpresa e confusa perché poi tutto procede cose se niente fosse; il direttore la ignora e le colleghe di lavoro, da lei interrogate, non parlano. Finché Nina si accorge di qualche dispettuccio (le hanno refilato il turno di notte) e tutti la evitano. Ci metterà un po’ per rivolgersi al sindacato e ad un’avvocatessa tosta che si occupa di queste faccende, non prima di essere stata avvisata dei rischi di una denuncia.
Questa prima parte risulta stilisticamente la più equilibrata. Una superficie armoniosa, una routine all’apparenza tranquilla. La dolcezza della campagna lombarda mi ha insinuato un pensiero bizzarro. In fondo, anche i Promessi sposi cominciano con una storia di prepotenti molestie. Che sono una questione di potere prima che di sesso.
Nella seconda parte, Nome di donna sbanda prima nel giallo con la maldestra sequenza in cui viene istallata una telecamera nascosta nell’ufficio del direttore e poi nello scontato racconto del processo. Ma con un rapido e geniale colpo di coda proprio sul finale.
Doverosamente ribadita l’importanza dell’argomento trattato e la lungimiranza nella tempistica, oltre alla scelta registica di restare sottotono, senza scene madri o scomposte reazioni, il film non coinvolge emotivamente, risulta eccessivamente didattico e non valorizza la buona prova della Capotondi. Del cui personaggio non emergono le sfumature. Al contrario di quanto avviene con il prete manager di Bebo Storti, così indaffarato nel business da chiudere gli occhi su tutto il resto. Anche il direttore di Valerio Binasco è ben pennellato nella sua meschina vanità (si fa chiamare dottore senza esserlo) e fa sempre lo gnorri. Un piccolo, raffinato cameo per Adriana Asti, anziana ospite dell’istituto che tiene sul comodino, come fotografie di famiglia, i ritratti di Strehler, Ronconi e Luchino Visconti.
Quando piccoli dispetti e non pesanti avances possono essere molestie sul lavoro. E avvelenare la vita delle donne
7 Marzo 2018 by