Quando registi, attori e organizzatori (da Costa a Gassman, da Grassi a De Bosio) erano visti anche come intellettuali

(di Andrea Bisicchia) La crisi dell’intellettuale coincide sempre con la crisi della scrittura e con la conseguente crisi di senso. Un tempo la figura dell’intellettuale aveva un potere, non solo ideologico, ma anche artistico, successivamente, con la crisi delle ideologie, si scopre, non più depositario di valori, soprattutto, quando, questi, ne riflettevano l’impegno e l’attività quotidiana.
C’è stato un periodo, durante il quale, venivano ritenuti intellettuali anche registi, attori, organizzatori, sia di cinema, come quelli legati alla  Nouvelle Vague, che faceva capo a Grillet, Resnais, Sollers, o come Antonioni, Fellini, Bertolucci, sia di teatro, come Orazio Costa, anche docente all’Accademia Silvio D’Amico, Vito Pandolfi, regista e docente di Storia del teatro, all’Università di Genova, Luigi Squarzina, docente al Dams di Bologna e, quindi, Strehler su cui, in occasione del centenario, vengono pubblicati numerosi libri, Luca Ronconi, di cui esiste una vasta bibliografia, De Bosio col suo illuminante contributo, insieme a Ludovico Zorzi, alla conoscenza del Ruzante, Enriquez, vero intellettuale della Compagnia dei Quattro. Organizzatori, come Paolo Grassi e Ivo Chiesa, sono noti per i loro scritti e i loro interventi pubblici. E che dire di attori come Vittorio Gassman, autore di libri di Poesia, di romanzi e di autobiografie, o come Giorgio Albertazzi, a cui dobbiamo una serie di pubblicazioni, come Carmelo Bene, poeta e drammaturgo, come Romolo Valli, ritenuto l’intellettuale principe al tempo della sua direzione del Festival di Spoleto, come Franco Parenti, sul cui comodino, accanto al letto, si vedevano libri di Schopenhauer, “Il mondo come volontà e rappresentazione”, di Heiddegger, “Essere e nulla”, di Severino, “Il destino della necessità”, e che ospitava, nel teatro a lui intestato, filosofi, storici della scienza, delle religioni, di sociologia, di politica.
Il loro potere era anche ideologico, oltre che artistico, avendo trasferito il proprio impegno in quello della scrittura e dell’interpretazione che, al loro interno, contenevano una forte carica politica. In questo senso, furono dei veri e propri rivoluzionari, perché ebbero la capacità di trasformare il linguaggio scenico, comportandosi come dei veri semiologi. Non per nulla, il periodo aureo dei registi, degli attori e degli organizzatori, corrispose a quello, altrettanto aureo, della scienza semiologica. Un grande semiologo, come Roland Barthes, diceva che “la lingua non è reazionaria, né progressista, ma fascista. Il fascismo non è costringere qualcuno a tacere, ma costringerlo a dire”.
Ecco, la lingua ha il potere di dire, di classificare, di dare un senso ai fatti che, da soli, come ha detto Pirandello, sono un sacco vuoto e, pertanto, insopportabili. Gli artisti citati non portavano in scena la realtà come un fatto, ma portavano dei pensieri e creavano dei valori, erano capaci di selezionare, di comunicare con competenza, non erano dei vacui influenzer, né venditori di fumo, come Perelà di Palazzeschi, non screditavano il sapere e non erano asserviti a nessuno, filtravano, nel loro lavoro, fermenti sociali e politici, erano, insomma, capaci di mettere ordine al nostro disordine.
Oggi cos’è rimasto? Gabriele Lavia e Umberto Orsini continuano a studiare, Andrée Ruth Shammah porta avanti il suo teatro con lo spirito e la determinazione di sempre, Claudio Longhi ha messo in aspettativa la sua carica di docente, ereditando il teatro, considerato il vero tempio della regia, grazie a Strehler e Ronconi, con la convinzione che la categoria di regia sia da modificare.