Quando si desidera il male, prima o poi arriva. E sarà la punizione. Per tutti. Specie per Solness. Un grande Orsini

MILANO, mercoledì 17 aprile ► (di Paolo A. Paganini) Sarà un’osservazione banale, ma per il misterioso fascino che ci procura la voce umana, quello che ci ha colpiti subito, di questa inquietante rappresentazione di “Il costruttore Solness” di Ibsen, al Piccolo Teatro Grassi, è stata la mancanza dell’odiosissimo microfonino, che Umberto Orsini, e gli altri interpreti non hanno (salvo altre diavolerie tecnologiche di cui non ci siamo resi conto e che non conosciamo). E ciononostante la voce di Orsini, senza forzature, arriva con l’imponente chiarezza di ogni fonema, con tutta la ricchezza d’una ancor giovane impostazione vocalica, così densa di gamme espressive, con una autorevolezza che raggiunge tutti i posti del teatro.
Mi ricorda la vecchia indimenticata amica Paola Borboni, quando diceva: “Se sai impostare il diaframma, anche un sussurro arriva all’ultima fila”. Basta.
“Il costruttore Solness” (1892), del drammaturgo norvegese Henrik Ibsen (1828-1906), è, fra i suoi ultimi drammi, quello forse più inquietante. Prima della paralisi, che lo farà vegetare sei anni fino alla morte, Ibsen scrisse ancora “Il piccolo Eyolf” (1894), “John Gabriel Borkman” (1896) e “Quando noi morti ci risvegliamo” (1899). Allegria.
Grande rimestatore di coscienze e di drammi sociali (con cautela, aveva condiviso, in età diverse, sia le teorie di Kirkegaard sia quelle di Nietzsche), cinico moralista, eppure contraddittorio e anticonformista, tra suggestioni metafisiche sottilmente pervase di soffusi naturalismi poetici (amatissimi dalla Duse), Ibsen affrontò con crudo realismo la crisi dell’uomo nella sua solitudine morale. Della tragedia del vivere umano, avvertì tutti gli scricchiolii, tutte le ombre, tutti i fastidi, tutte le angosce e le paure del decadimento fisico.
Come in questo ambizioso “costruttore”. Solness edificò il suo straordinario successo professionale ed economico proprio sulle ceneri di una sua personale tragedia, coincisa con l’accidentale incendio della casa della moglie, con la morte dei due gemellini di pochi mesi, e con la depressione della donna, che non ne uscirà più.
Di questo umano naufragio di sentimenti, di affetti, di certezze, Solness si sentì responsabile, per averla forse desiderato. E perciò voluto e determinato. E dentro di sé si portò, come una condanna, l’attesa di una punizione che lo colpirà proprio in quell’orgoglio di sapersi il primo, il più bravo. Cieco di egoistica superbia, diventa odiatore dei giovani, sapendo che prima o poi lo scalzeranno dal suo trono di certezze. Ma sa anche che, a rappresentare il suo più inesorabile nemico, è il tempo, l’incalzare dell’età, con i primi segni della vecchiaia.
E, inaspettata, viene a dargli nuovo vigore una ragazza, Hilde, che lui aveva conosciuto da bambina. A lei aveva promesso che un giorno le avrebbe costruito un castello. La ragazza ora, dopo dieci anni, è giunta portando, con la propria giovinezza, l’ebbrezza di nuove attese d’amore e per reclamare il castello promesso.
Tutto era cominciato con la disgrazia dell’incendio, tutto finirà con Solness, su un’alta impalcatura, lui che soffriva di vertigini, salito per accontentare Hilde. E la temuta punizione arriverà proprio con il sorriso della giovinezza.
Lo spettacolo, di cui abbiamo narrato, per sommi capi, la vicenda, oltre alla voce e al vigore interpretativo dell’ottantacinquenne Umberto Orsini (chapeau!), è stato motivo di straordinario interesse per l’egregia compagine attoriale e, soprattutto, per la regia di Alessandro Serra, che ha stravolto Ibsen facendo nel contempo un’opera di travolgente e affascinante bellezza. L’apparente contraddizione di giudizio nasce dalla constatazione che, sì, il testo originale di Ibsen si sviluppa in quattro atti, e qui, al Teatro Grassi, si riduce a un atto unico di poco più di un’ora e mezzo. Si tratta di un feroce adattamento che però non toglie nulla ai tetri, incombenti, lugubri (e nordici) fantasmi di Ibsen (con tentazioni di parapsicologia). Ha poi sovrapposto scenograficamente diversi piani di lettura, come sogni, o incubi, o proiezioni mentali di Solness, con ciò alludendo in anticipo ai diversi sviluppi drammaturgici. Inoltre, intride la colonna sonora di scricchiolii e lamenti di serrature, come gementi anime dannate, invase dai loro demoni.
E tutti sono incrinati e condannati a un destino di perdizione.
Entusiasmo e grandi applausi alla fine per tutti.

“Il costruttore Solness”, da Henrik Ibsen, uno spettacolo di Alessandro Serra. Con Umberto Orsini, nel ruolo di Solness, e Lucia Lavia (Hilde), Renata Palminiello (Aline), Pietro Micci (Dottor Herdal), Chiara Degani (Kaja), Salvo Drago (Ragnar) e con Flavio Bonacci nel ruolo di Knut Brovik. Al Piccolo Teatro Grassi (Via Rovello, 2 – Milano). Repliche fino a domenica 12 maggio.

Informazioni e prenotazioni 0242411889.
www.piccoloteatro.org