MILANO, sabato 6 novembre ► (di Paolo A. Paganini) – Brecht scrisse “L’anima buona di Sezuan” tra il 1938 e il 1940. Il periodo peggiore per la serenità dello spirito. Siamo dentro il nazismo. Il nazionalsocialismo di Hitler, dalla Germania a tutta l’Europa, estendeva l’ala funesta del dolore e della morte. Lasciava ben poco spazio a sogni romantici e arcobaleni di gaudiose serenità.
E gli dei stavano nel loro Olimpo e lasciavano fare alle pazzie del mondo. Ma tre di loro scesero sulla terra per trovarne almeno uno, buono generoso e onesto.
Sì, dài, c’era l’anima buona di Sezuan, col suo negozietto di tabaccaia. Ma troppo buona, per non essere anche un po’ bamba. E infatti tutti approfittavano della sua stordita incapacità di rifiutarsi e dire no a un mondo di avidi e profittatori, ma tutto sommato poveracci, accattoni e miserabili, in cerca di un po’ di cibo e di qualche piccola luce in un mondo disperato tra il bene e il male. Sappiamo dalla vita chi la vincerà. Alla fine gli stessi tre dèi se ne torneranno, scornati e delusi, da dove erano venuti.
Bene. Rieccoci a Brecht e a Sezuan.
Il periodo creativo di quest’opera, vista ora al Teatro Manzoni (dopo quella di Strehler dell’81, con Andrea Jonasson) è stato dunque uno dei peggiori per quello scorcio di Novecento in cui è stata scritta. E tuttavia certi entusiasmi e tenaci fulgori di arti e correnti erano sopravvissuti e continuavano a dare consolatori segni di speranze. O di illusioni.
L’espressionismo, per esempio, sviluppatosi in Germania tra il 1905 e il 1930.
Brecht, dunque, lo conosceva bene, e se ne servì in quasi tutte le sue opere.
Eppure, l’espressionismo è anche una brutta bestia, indomita, traditrice e pericolosa. L’espressionismo, appena può, si avvale della caricatura. Impossibile evitarla. E sappiamo quanto la caricatura sia la prima tentazione verso la comicità. E la comicità sappiamo quanto sia facile che stramazzi sotto il peso dell’esuberanza e degli eccessi, scivolando nel cattivo gusto o nella volgarità. Così, per esempio, era finito il cabaret milanese tra il Settanta e l’Ottanta. Niente di nuovo. Da Plauto ad Aristofane, da Luciano di Samosata al Boccaccio, dal Ruzante al Bertoldo (Bertoldino e Cacasenno) di Giulio Cesare Croce, eccetera, non mancano gli esempi di scivolosa trivialità.
Non è il caso di Brecht, troppo artista e troppo grande per non sapersi fermare in tempo.
La divagazione ci è stata utile per riconoscere ora alla stessa Monica Guerritore, protagonista e regista dell’Anima buona, l’equilibrata saggezza dell’esperta donna di teatro, specie dopo essersi ispirata a Strehler (lui, più realista che espressionista!) per questo agile e misurato revival brechtiano. La Guerritore, per sua ammissione, nell’81 ha seguito tutte le prove strehleriane dell’Anima buona di Sezuan. Dopo quarant’anni, come ricordo ed omaggio al Maestro triestino (nell’anno del suo Centenario della nascita), ha voluto restituire alla Memoria quella sua antica e gioiosa testimonianza nata al Piccolo Teatro. Anch’io seguii alcune prove e lo spettacolo lo vidi un paio di volte, ma ora, onestamente, non so dire quanto Monica Guerritore ora ne sia stata fedele. Facciamo un atto di fede.
Di per sé, ora, lo spettacolo è gradevole e d’intelligente fattura, anche se, qua e là, perde di ritmo, quando scivola dall’espressionismo brechtiano al peccato veniale di qualche eccessiva caricatura, dalle figure minori al poliziotto.
Lo spettacolo è in due tempi, di un’ora e trenta e di trentacinque minuti, più un intervallo.
La prima parte è felicemente interessante ancorché didascalica.
Nella seconda parte, quando quella buonanima, per sopravvivere ai tanti caimani, si era fatta anche lei furba e spietata fingendosi il “cugino cattivo” della troppo generosa tabaccaia, riuscì a farsi tanti bei soldini, diventando da piccola bottegaia di trinciato a potente e implacabile imprenditrice.
Ebbene qui, nel breve spazio di mezz’ora, esplodono momenti di tenerezza e di esaltante bellezza. Perfino commoventi. E questo grazie alla Guerritore. Si veda per esempio la scena della festa di matrimonio e come la baldoria fallisce: triste e angosciante. Oppure la rivelazione di essere incinta. O quando, davanti ai giudici (sempre i tre dei), viene accusata di avere soppresso la cugina buona per appropriarsi della sua misera tabaccheria. Rischia di essere condannata. Chissà. Tutto sembra precipitare.
E noi ci chiediamo: cosa mai la Guerritore avrà inventato per concludere in bellezza l’apologo brechtiano? Signori, lei con il pancione scenico di sette mesi, ora che ha rivelato la sua vera identità, si lamenta in un climax da tragedia greca, invoca: “Aiutatemi aiutatemi aiutatemi”, e tutti i compagni di scena le si stringono intorno e l’abbracciano, quasi una piramide umana di commozione e di solidarietà, un’’apoteosi d’arte in cui tutto sembra trasfigurarsi nobilitarsi e redimersi. Dio mio. Ecco cos’è la potenza buona e consolatrice del teatro!
Diversi applausi anche durante lo spettacolo. E giubilo finale per tutti. Compresa la voce registrata del Maestro, che conclude con un disincantato inno all’amore.
“L’ANIMA BUONA DI SEZUAN”, di Bertolt Brecht; traduzione di Roberto Menin. Con: MATTEO CIRILLO(Yang Sun, un aviatore senza lavoro / il falegname LinTo), ALESSANDRO DI SOMMA (Secondo Dio / il bambino / la vedova Li), VINCENZO GAMBINO (Wang, un venditore d’acqua / il fratello zoppo), NICOLO’ GIACALONE (il barbiere Shu Fu / il marito), FRANCESCO GODINA (il poliziotto / il nipote gagà / Primo Dio), MONICA GUERRITORE (Shen Te alias Shui Ta), DIEGO MIGENI (Terzo Dio / la Signora Mi Tzu), LUCILLA MININNO (Signora Yang / la moglie). Scene da un’idea di Luciano Damiani. Regia MONICA GUERRITORE, ispirata all’edizione di Giorgio Strehler (Milano 1981). Al Teatro Manzoni, Via Manzoni 42, Milano. Repliche fino a mercoledì 17.