(di Patrizia Pedrazzini) Roma, 10 luglio 1973. Nella notte alcuni uomini mascherati rapiscono, in piazza Farnese, un ragazzo di sedici anni, John Paul Getty III, nipote dell’ottantenne magnate americano del petrolio John Paul Getty. Il giovane viene subito portato in Calabria, dove finirà, venduto dai rapitori iniziali, nelle mani della ’Ndrangheta. Il riscatto chiesto è inizialmente di 17 milioni di dollari (all’epoca il patrimonio del nonno già supera ampiamente il miliardo), che scenderanno alla fine a quattro. Solo che il vecchio Getty, noto per essere l’uomo più ricco del pianeta, ma anche il più avido e tirchio, si rifiuta di pagare. Per non esporsi, dice, al potenziale rapimento anche degli altri numerosi nipoti. Ma alla fine sarà costretto a cedere, non prima che i sequestratori abbiano fatto arrivare alla famiglia l’orecchio tagliato dell’adolescente, che il 17 dicembre dello stesso anno verrà rilasciato sulla Salerno-Reggio Calabria.
Ora, davanti a “Tutti i soldi del mondo”, una domanda sorge spontanea: perché? Perché un regista del calibro dell’indubbiamente eclettico Ridley Scott, celebre per la cura quasi ossessiva delle immagini e per la versatilità (“I duellanti”, “Alien”, “Blade Runner”, “Thelma & Louise”, “Il gladiatore”, “Black Hawk Down”, “Le crociate”, “Prometheus”, più tutti gli altri non citati), è andato a ripescare la brutta storia di quel rapimento? A quale scopo? Di cosa parla veramente questo suo ultimo lavoro? Di un fatto di cronaca? In parte: la ricostruzione non è delle più fedeli (per esempio, il nonno non muore abbracciato a una delle innumerevoli opere d’arte che possiede quando il nipote viene liberato, bensì tre anni dopo), e comunque si basa su un libro di John Pearson, “Painfully Rich”. Del vecchio Paperone duro e insensibile? Riduttivo. Dell’adolescente sul quale da subito aleggia il sospetto che, almeno inizialmente, avesse lui stesso preso parte alla progettazione del rapimento, per estorcere un bel po’ di denaro all’avido nonno? Non è lui il vero protagonista. Di Gail, la combattiva madre di Getty III, tutto sommato il personaggio più “pulito” del film, almeno lei non succube dei soldi, anzi capace di rifiutarli in nome di affetti e valori? Non solo. E allora, perché?
Lo si capisce alla fine, mentre scorrono i titoli di coda, sulle note di una colonna sonora dal respiro non a caso sottilmente epico firmata Daniel Pemberton (“King Arthur. Il potere della spada”). Il vero, unico, assoluto protagonista del film è lui: il denaro. O meglio il maledetto dio denaro. Il suo essere utile e dannoso al tempo stesso. La sua ambivalenza. La dipendenza che ne deriva. L’influenza che ha sul lato emotivo delle persone, dei buoni come dei cattivi. Il suo diventarne schiavi, ostaggi, vittime. E allora si capisce, e quasi fa un po’ pena, la figura del vecchio Getty (un impagabile Christopher Plummer che, subentrato a Kevin Spacey, “licenziato” dopo lo scandalo delle molestie sessuali, a 88 anni se li mangia tutti in un solo boccone); e quella, altrettanto infelice, del giovane Getty (l’efebico Charlie Plummer, nessuna parentela), che i troppi soldi e gli agi trasformano da bambino attento, curioso e desideroso di fare in ragazzo viziato e schiavo delle droghe; e ancora quella del padre del giovane, John Paul Getty II, cocainomane, debosciato, una nullità; e, per contrasto, quella della madre del rapito (Michelle Williams, ma inizialmente il ruolo era stato offerto a Natalie Portman), che proprio per il fatto di non far parte della sventurata famiglia, di non idolatrarlo, il dio denaro, che l’unica cosa che chiede è di poterlo “usare” per liberare il figlio, riuscirà (forse) a salvarsi l’anima. E si capiscono i sequestratori (ai quali, come agli esponenti delle forze dell’ordine, nonché al “dottore” che taglia l’orecchio al ragazzo, dà volto un discreto gruppetto di attori italiani in particine di contorno e dalla resa non particolarmente esaltante), primo fra tutti “Quaranta” (il francese Romain Douris): ovvero il lato bestiale dei soldi.
Nel complesso, un dramma familiare, e non solo, dai toni shakespeariani, soprattutto nella parte finale (forse la migliore), quando la morte costringe il vecchio Getty a guardare in faccia la propria potente solitudine. Ben sostenuto dalla cupa fotografia di Dariusz Wolski (“Il corvo”, “Pirati dei Caraibi”, “Sweeney Todd”, “Prometheus”, “Exodus”) e dalla mano forte ed esperta di un grande regista. Ma che non riesce mai a catturare completamente. Perché?
Quella brutta storia di Paul Getty III e dell’orecchio mozzato. Crimini e misfatti del dio denaro. Secondo Ridley Scott
3 Gennaio 2018 by