(di Andrea Bisicchia) – Non c’è alcun dubbio sulle difficoltà che esistano per rappresentare un testo, che equivale a rappresentare dei pensieri, delle riflessioni sulla vita, perché la scrittura scenica è, senza dubbio, più difficile di quella letteraria. Nella scrittura scenica, vengono coinvolti linguaggi e discipline diverse, tanto che chi è chiamato a rappresentare deve, a sua volta, fare chiarezza sul rappresentato.
Si parte sempre da un canovaccio, a cui viene ridotto il testo, spetta al regista il compito di “tradurlo” per la scena, ovvero di dargli una vita non solo estetica ma anche sociale, esistenziale e, in molti casi, anche politica. È come trasformare ciò che è in ciò che sarà, dovendo, il regista, chiedersi quale rapporto debba avere il rappresentato con la realtà e, nello stesso tempo, per chi rappresentarlo.
Sappiamo che i modi di rappresentare sono alquanto diversi, c’è chi sceglie la fedeltà al testo, cercandone la profondità, oltre che il mistero, c’è chi preferisce utilizzare il testo per sperimentare forme diverse di rappresentazione, facendo ricorso alla contaminazione tra linguaggi differenti, in particolare quello del potere della luce, per esempio, necessario per creare delle trame che, pur rasentando l’astrazione, sostituiscono l’energia della parola con quella del corpo, o quello del colore che, però, assume una sua specificità, grazie alle particolari fonti luminose.
Il divario tra gli spettacoli che puntano sulla parola e quelli che preferiscono il linguaggio del gesto, si è sempre più allargato, soprattutto nel terzo millennio, perché ormai sono in tanti a ritenere la parola sempre più debole e sempre più vuota. Nella scena contemporanea, molti sono coloro che hanno scelto non più la tensione poetica, la stessa a cui facevano ricorso i maestri della regia, ma la tensione fisico-corporea o quella che immette l’attore dentro trame luminose, come è accaduto, per esempio, nello spettacolo “Costellazioni” di Nick Payne, messo in scena da Raphael Tobia Vogel, con Elena Lietti e Pietro Micci, in cui la parola si inframmezzava con le fasce luminose che, a loro volta, testimoniavano le contraddizioni dei sentimenti umani. Vogel fa parte di una nuova generazione di registi che hanno deciso di non perdersi in inutili astrazioni, di rispettare il testo, ma nello stesso tempo cercare di dare un proprio contributo allo smantellamento di vecchie convenzioni. In questa nuova costellazione di registi, troviamo: Leonardo Lidi, col “Gabbiano”, Pier Luigi Pisano, con lo spettacolo “Carbonio” voluto al Piccolo da Claudio Longhi che, con coraggio, ha deciso di mettere a disposizione il palcoscenico, di uno dei teatri più famosi al mondo, per nuove avventure creative affidate a giovani, come la Ferracchiati, Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni che hanno dato grande prova di maturità con “Anatomia di un suicidio” che, a dire il vero, ha un po’ offuscato la grande produzione di “Romeo e Giulietta”, con la regia di Mario Martone.
C’è ancora da ricordare il lavoro di Leonardo Manzan con “Cirano non deve morire”, col suo ricorso alle rime Rap, recitate con quel tanto di rabbia che lo rende speculare al “Cirano” di Cirillo o quello di Giuseppe Marini, con la novità assoluta di Francesco Niccolini, con Claudio Casadio, che ha raggiunto 150 repliche e che si potrà vedere, a maggio, all’Elfo-Puccini.
Sono alcuni esempi appena sufficienti per dimostrare come la scrittura scenica continui a emanciparsi, senza troppo sbilanciarsi nei confronti del versante testuale e senza ricorrere a facili virtuosismi, spesso banali, che possono soltanto nuocerla, come dire che rappresentare è più difficile che scrivere, dato che, la scrittura scenica appartiene a qualcosa di più materiale, rispetto a quella letteraria, che appartiene all’immateriale. Quello a cui stiamo facendo riferimento non è certo un teatro di contestazione, con la sua voglia di praticare la radicalità, ma un teatro che non cerca di millantare nuove estetiche e che non vuole essere neanche un “nuovo teatro”, bensì, semplicemente, un modo diverso di scrivere per la scena, con la volontà, addirittura, di rapportarsi col teatro di regia, quello di una volta.
Oggi, con la volontà di sperimentare a tutti i costi, assistiamo in tanti gruppi teatrali la ripetizione dell’identico che è contraria all’evolversi della scena, a causa dei ritmi ripetitivi, spesso meccanici, dovuti al ricorso spasmodico delle nuove tecnologie, smarrendo il vero spirito del teatro che consiste nel comunicare delle verità sgradevoli, nell’esprimere con le parole ciò che non riusciamo a esprimere nella nostra solitudine.
Solo nei testi dei grandi drammaturghi, dei grandi narratori, si possono trovare delle verifiche che riguardano il nostro vivere quotidiano.
Rappresentare, più difficile che scrivere. E la parola, sempre più debole, sempre più vuota, è umiliata da luci e gestualità
9 Aprile 2023 by