Rigore e sacrificio per il teatro (e un po’ per la cucina). Ma anche cattiverie (e dolcezze) d’un genio. Cioè: Eduardo

1902-7 Eduardo De Filippo_cop_14-21(di Andrea Bisicchia) Il libro di Italo Moscati: “Eduardo De Filippo. Scavalcamontagne, cattivo, genio consapevole”, EDIESSE edizioni, si legge con molta curiosità, perché ricco di notizie, di aneddoti, di analisi, senza, però, il piglio accademico, ma col gusto di raccontare una storia, attraverso le voci di chi ha conosciuto Eduardo, di chi ne ha sperimentato le cortesie, le scortesie, le amicizie, le inimicizie, le cattiverie, le dolcezze, da ritenere, non certo delle contraddizioni, quanto il frutto di stati d’animo, di umori, conseguenti alle lunghe giornate di lavoro. Eduardo viveva di teatro, non privilegiava altri luoghi, se non quello della cucina di casa, dove l’invitato si sentiva un privilegiato.
Moscati ha cercato di capire e di farci capire perché Eduardo era troppo amato e troppo odiato e di farci scoprire che non si trattava di sentimenti, bensì di un’idea di rigore che ha contraddistinto tutta la sua vita. Il rigore, a teatro, è come l’onore per una coppia, come la ricerca scientifica per lo studioso. Senza rigore non si arriva a nulla, il medesimo rigore Eduardo lo metteva in cucina, quando preparava i suoi piatti. Lo avevano ben capito gli attori che hanno lavorato con lui, da Regina Bianchi a Valeria Moriconi, a Vincenzo Salemme, presenti nel libro con delle testimonianze.
A proposito del rigore, la Moriconi sosteneva che, per Eduardo, non impegnarsi voleva dire non aver rispetto per lui, a non capire il suo alto magistero. Moscati ci dà un ritratto a tutto tondo, con contributi mirati, come quello della Cavani per il cinema, della Compatangelo per la televisione. Egli si riserva un angolo particolare, quello del periodo tra gli anni Sessanta-Settanta, durante il quale non viene più messo in discussione il genio di Eduardo, era il periodo dei mattatori come Gassman, dei “giullari” come Dario Fo, degli “esibizionisti” come Carmelo Bene e della conseguente avanguardia, che faceva proprie certe invenzioni che arrivavano dall’America e dal Living. Erano gli anni del divismo, della Dolce vita, solo che il divismo, senza rigore, ha labile fama. Moscati non nasconde di aver parteggiato per Carmelo Bene, di avere inseguito l’utopia della contestazione, di aver partecipato, come tanti di noi, a numerose tavole rotonde, quando il teatro si era spostato dalle scene alle sale di dibattito, egli prende atto di quanto era accaduto nel decennio ’68-78, caratterizzato dalla crisi degli Stabili, della regia, ma , alla fine, capisce che Eduardo aveva attraversato tutto, essendo stato lui il vero avanguardista.
Molti di noi si trovavano a Taormina, durante la sua ultima apparizione, quando Eduardo ricordò come il teatro fosse fatto di sacrifici e di “gelo”. Attorno alla sua figura non mancano gli aneddoti, ormai famosi come quello che raccontò durante una lezione alla Sapienza di Roma:
“Pronto? Qui la televisione”. Risposta di Eduardo: “Un momento che la metto in comunicazione con il frigidaire”.
L’aneddotica, a teatro, fa parte della storiografia, persino Eric Hobsbawn dà un posto di rilievo a quelli che, in apparenza, possano sembrare dei piccolo dettagli. Eduardo ben sapeva che ogni storia è fatta di piccole storie, così come sapeva che non esistono piccole parti, perché ciascuno di noi può dare il meglio di sé senza essere protagonista.

Italo Moscati,”Eduardo De Filippo. Scavalcamontagne, cattivo, genio consapevole”, EDIESSE edizioni, 2014 – pp 236, euro 14