Ritratti paesaggi tavolozze e colori. Per stemperare, con virtuosismo molto british, uno scabroso cambio di sesso

danish girl foto(di Marisa Marzelli) Il regista londinese Tom Hooper è uno che si applica. Gli manca il geniaccio, il colpo d’ala che lascia a bocca spalancata, ma ogni suo lavoro è accurato, elegante. E ne ha tratte non poche soddisfazioni: quattro Oscar (compreso quello alla migliore regia) per il non eccelso Il discorso del re, oltre ad altri riconoscimenti per il musical Les Misérables e le serie tv storiche sulla regina Elisabetta I e il presidente degli Stati Uniti John Adams.
Hooper è bravo in particolare nelle storie in costume, non importa di quale epoca, sa far rendere al massimo quella patina del tempo che avvolge e rende suggestive le vicende.
È in costume anche The Danish Girl,in concorso all’ultima Mostra del cinema di Venezia e ora in corsa per quattro premi Oscar: nominato come migliore attore il protagonista Eddie Redmayne, migliore attrice non protagonista per la svedese Alicia Vikander, costumi e scenografie.
Tratto dal romanzo del 2001 di David Ebershoff (a sua volta ispirato ad una storia vera, quella del pittore Einar Wegener, che si sottopose nei primi anni del secolo scorso a ben cinque operazioni chirurgiche per diventare donna),The Danish Girl affronta un argomento di attualità anche in questi giorni (il Parlamento è alle prese, non senza problemi, con le unioni civili): l’identità di genere. E bisogna dire, trattato nel film senza superficialità modaiola o voglia di scandalizzare. Perché Hooper è un regista ben educato, molto british, assolutamente politically correct, rispettoso delle idee di ogni tipo di spettatore, anche il meno aperto e progressista. Sfida non da poco; sotto questo aspettoThe Danish Girl se la cava affrontando il nocciolo del discorso dal punto di vista più che altro estetico. Non a caso gioca un ruolo centrale la pittura. Immaginate – lo stile visivo si apparenta un po’ a quello de La ragazza con l’orecchino di perla – l’arte come cartina di tornasole che sublima e fa esplodere (inconsci) desideri di cambiare sesso perché il protagonista si ritiene donna imprigionata in un corpo maschile.
Ecco dunque, nel milieu artistico della Danimarca negli anni ’20, il giovane ma già affermato paesaggista Einar Wegener (Eddie Redmayne) e la moglie Gerda Gottlieb (Alice Vikander, attrice svedese bella, brava e con notevole carisma) a sua volta pittrice, ma ritrattista e meno famosa. Sono una giovane coppia innamorata e in apparenza senza problemi. Finché lei, in assenza della modella e per portarsi avanti con il lavoro, chiede al marito di posare in abiti femminili. Niente di particolare, deve solo dare qualche pennellata al tutù, alle calze e scarpette. Per l’uomo è una folgorazione (e qui il film è reticente e ambiguo nel non segnalare che c’erano stati segnali precedenti), mettersi abiti da donna risveglia la sua latente femminilità. Li indosserà sempre più spesso, anche in pubblico, inventandosi l’identità di Lili Elbe e attirando desideri maschili. Sempre supportato dalla moglie, che lo asseconda in nome di un amore disposto ad ogni sacrificio per il bene dell’amato. Fino a seguirlo nelle sue peregrinazioni tra le corsie degli ospedali per trovare qualcuno (al di fuori dalla medicina ufficiale, che affronta il caso di Wegener come malattia mentale) disposto ad eseguire l’intervento chirurgico per il cambio di sesso.
Poteva diventare una storia grottesca o provocatoria, invece Hooper abbonda in ritratti, paesaggi, tavolozze e colori, dentro e fuori dai quadri. Mai una scenata, uno scarto di disperazione, semmai una cortina di malinconia. Tutto o quasi al servizio dell’interpretazione di Redmayne, che da una scena all’altra prende sempre più confidenza con il suo sé femminile, nel trucco, nell’abbigliamento, in gesti e sorrisi. L’impressione che il personaggio scivoli anche in una dolce follia, autoconvincendosi di poter diventare in futuro persino madre, il film a tratti la suggerisce, ma l’attore è talmente in parte (sul virtuosismo ci marcia) che ce ne si dimentica subito.
Ci vuole del talento per confezionare un film così esangue attorno ad un tema dall’essenza tanto carnale. I cultori di un certo realismo possono uscire infastiditi dal film, ma le anime sentimentali apprezzano.