Robert Capa, la leggenda. Al Mudec di Milano oltre ottanta scatti del fotoreporter che immortalò la Storia del Novecento

MILANO, venerdì 11 novembre (di Patrizia Pedrazzini) – Che cosa c’è ancora da dire, di Robert Capa, che già non sia stato detto, scritto, spiegato, ripetuto, visto, scoperto, immaginato, in decine e decine di mostre a lui dedicate in tutto il mondo? Che è una leggenda? Certo che lo è. Per le sue fotografie, per la sua vita e la sua morte, perché se n’è andato giovane, a nemmeno 41 anni (era il 1954), saltando su una mina in Indocina, perché una guerra non era una guerra se non c’era lui a catturarla con l’obbiettivo, perché c’era lui, sulla prima ondata di mezzi da sbarco nelle acque davanti a Omaha, in Normandia, a immortalare la carneficina del D-Day. Perché “se le tue foto non sono abbastanza buone, vuol dire che non eri abbastanza vicino”. Perché magari dopo di lui ne sono venuti di altrettanto bravi e forse di migliori, ma Capa è Capa. E davvero non c’è altro da dire.
Ed ecco allora al Mudec di Milano, fino al prossimo 19 marzo, “Robert Capa. Nella Storia”: oltre ottanta stampe del fotoreporter ungherese naturalizzato americano (che con Henri Cartier-Bresson e David Seymour fondò, nel 1947, l’agenzia Magnum Photos), sorta di racconto per immagini dei suoi maggiori reportages: dagli esordi a Berlino e a Parigi alla guerra civile spagnola, dall’invasione giapponese della Cina alla seconda guerra mondiale, dal viaggio in Unione Sovietica alla nascita dello Stato di Israele, fino all’ultimo incarico, come fotografo di guerra, in Indocina.
Scatti di guerra, soprattutto, ma anche di vita quotidiana, fatta di piccoli momenti di gioia e di voglia di riscatto. Tutti però legati da un unico fil rouge: l’azione, o meglio l’istinto che consente di cogliere l’istante decisivo. E allora poco importa se tecnicamente, magari, qualche fotografia non è perfetta, quando è intrisa di umanità. Come nel caso, clamoroso, delle sole undici foto sopravvissute dello sbarco in Normandia, tre delle quali sono presenti nella mostra milanese: immagini “mosse” (comprensibilmente, visto il contesto nel quale Capa lavorava), quindi di per sé non buone, tuttavia bellissime.
Da ricordare, al proposito, che il fotoreporter era partito con quattro rullini: 106 foto praticamente già vendute a “Life”, che tuttavia, per il tragico errore di un assistente che dimenticò di accendere la ventilazione dell’essiccatore, non videro mai la luce. Solo un rullino rimase in parte intatto, quello che permise di consegnare alla Storia le sole undici fotografie esistenti al mondo dello sbarco a Omaha Beach, subito ribattezzate le “Magnificent Eleven”.
Non mancano, nella mostra milanese, pezzi da novanta come quello del contadino siciliano che indica a un ufficiale americano la strada presa dai tedeschi (1943), o quello della morte di un miliziano lealista (1936), che lo consacrò come “il più grande fotoreporter di guerra del mondo”, parole del “Picture Post” (e nonostante lo scatto sia stato, in anni più recenti, al centro di una querelle intorno alla sua autenticità).
Ma nemmeno mancano i ritratti: quello di Trotsky sul palco di un comizio (“rubato” da Capa grazie alla piccola Leica che teneva in tasca, perché l’accesso ai fotografi era vietato), quello di Chiang Kai-Sheck, o dell’amico Steinbeck, lo scrittore con il quale intraprese, nel ’47, un difficile viaggio oltre la cortina di ferro, testimoniato al Mudec da una quindicina di scatti finora mai esposti in una mostra italiana. Le rovine di Stalingrado, le fattorie collettive, le facce serie dei moscoviti, le contadine che ballano, i bambini. Al rientro, dovette sottoporre al visto della censura oltre quattromila negativi, e non tutti “passarono”. Perché “più vai a Est, con una macchina fotografica, meno piaci alla gente, per molte ragioni: e la maggior parte non sono buone”.
E c’è, a chiusura del percorso, la sua ultima foto, scattata nell’attuale Vietnam il 25 maggio 1954, il giorno in cui morì. Si vedono, di spalle, alcuni soldati che camminano avanzando nelle risaie, preceduti, sullo sfondo, da un carro armato. Ma le figure erano ancora troppo lontane. Allungò il passo per avvicinarsi, cercando una posizione migliore. Aveva con sé una Nikon con pellicola a colori e una Contax per il bianco e nero. Dopo l’esplosione, gliela trovarono ancora stretta nella mano sinistra.

“Robert Capa. Nella Storia, Milano, Mudec, via Tortona 56, fino al 19 marzo 2023.

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