MILANO, giovedì 5 febbraio ●
(di Patrizia Pedrazzini) “Se le tue fotografie non sono all’altezza, vuol dire che non eri abbastanza vicino”. Ha senso descrivere una leggenda? C’è qualcuno che non la ricorda, sui libri di scuola, la foto di quel contadino siciliano piccolo piccolo che mostra, bastone puntato, a quel soldato americano giovane, bello, e tanto, tanto alto che è costretto ad accucciarsi sulle ginocchia per stargli alla pari, la direzione nella quale sono andati i tedeschi? Robert Capa (1913-1954), il fotografo ungherese da molti considerato il padre del fotogiornalismo, è a Milano, allo Spazio Oberdan, fino al 26 aprile. Per l’esattezza, 78 immagini in bianco e nero scattate, al seguito delle truppe alleate, nel Sud dell’Italia fra il 1943 e il ’44, dallo sbarco in Sicilia ad Anzio, passando per Montecassino.
Un affresco che Capa (vero nome Endre Friedman, della borghesia ebrea di Budapest), reporter accreditato dell’esercito americano, riesce a realizzare solo, come sempre, avvicinandosi il più possibile a quello che vuole ritrarre. È così che una notte dell’estate del ’43 arriva sulla Sicilia a bordo di un piccolo aereo, in compagnia di pochi soldati, si lancia col paracadute e atterra su un albero, dal quale l’indomani i compagni lo aiuteranno a scendere. “Abbastanza vicino” per raccontare, attraverso l’obbiettivo, la vita, e la morte, di ignoti soldati e di altrettanto sconosciuti civili. Italiani, americani, tedeschi, non fa differenza. Le macerie non hanno patria. La paura, la stanchezza, l’attesa, nemmeno. Il dolore delle madri che piangono le giovani vittime delle Quattro giornate di Napoli va al di là di ogni confine geografico. Come il quotidiano lavoro dei medici da campo, o dei chirurghi all’opera nell’ambulatorio improvvisato fra gli stucchi e le immagini sacre di una chiesa di Maiori, in Campania. Fra donne vestite di nero che si aggirano senza lacrime in mezzo alle rovine di Agrigento, e altre che, autiste di ambulanza, riescono a trovare la voglia di sferruzzare a maglia fra un combattimento e l’altro, vicino a Cassino.
Un affresco che è frutto di tenacia, determinazione nel raggiungere il cuore degli avvenimenti, inventiva. Ma anche, come nota la curatrice della mostra, Beatrix Lengyel, di qualità come una forte sensibilità, la capacità di riconoscere e scegliere i temi, il senso della composizione. Anche quando la “composizione” sono i ritratti dei soldati tedeschi prigionieri, i loro visi distrutti ma in fondo anche sereni, sui quali ancora aleggia la speranza.
“Capa sapeva cosa cercare e cosa farne dopo averlo trovato. Sapeva, ad esempio, che non si può ritrarre la guerra, perché è soprattutto un’emozione. Ma lui è riuscito a fotografare quell’emozione conoscendola da vicino”, disse di lui John Steinbeck. Da vicino. Come sempre. Come era vicino al miliziano nel momento in cui veniva colpito a morte da un proiettile sparato dai Franchisti durante la guerra civile spagnola. Come fra le barbarie della guerra sino-giapponese, che aveva seguito nel ’38. Come sulla spiaggia di Omaha, in Normandia, dove riuscirà ad arrivare insieme ai soldati del contingente americano, correndo con loro nell’acqua giù dai mezzi da sbarco, sotto il tiro dell’artiglieria tedesca, a fotografare la Storia. Come durante la guerra arabo-israeliana del ’48. Fino all’Indocina.
“E’ morto su una strada secondaria in un’azione secondaria. Era destino che andasse così”, dirà il fratello minore Cornell, anch’egli fotografo. Accadde in Vietnam, nella regione del Delta del Fiume Rosso. Era al seguito di un convoglio francese. Durante una sosta, salì su un terrapieno per inquadrare meglio una colonna che avanzava nella radura. Mise il piede su una mina.
“Robert Capa in Italia, 1943 – 1944”. Milano, Spazio Oberdan, viale Vittorio Veneto 2. Fino al 26 aprile.
Diritti fotografici: Photography by Robert Capa©International Center of Photography/Magnum – Collection of the Hungarian National Museum.